I contribuenti aumentano, i servizi no. Cuzzilla (Cida): Ceto medio, 42% del gettito fiscale e nulla in cambio

140
in foto Stefano Cuzzilla

Il totale dei redditi prodotti nel 2022 e dichiarati nel 2023 ai fini Irpef è ammontato a 970 miliardi, per un gettito Irpef generato – al netto di Tir (Trattamento integrativo sui redditi da lavoro dipendente e assimilati) e detrazioni – di 189,31 miliardi (di cui 169,59 miliardi, l’89,59%, di Irpef ordinaria): valore in aumento del 6,3% rispetto allo scorso anno ma inferiore alla crescita del Pil nominale (+7,7%). Crescono sia i dichiaranti (42.026.960, numero addirittura superiore a quello record del 2008) sia i contribuenti/versanti, vale a dire coloro che versano almeno 1 euro di Irpef, che toccano quota 32.373.363. Mentre salgono sia i contribuenti con redditi compresi tra i 20 e i 29mila euro (9,5 milioni) sia quelli con redditi medio-alti dai 29mila euro in su, diminuiscono i dichiaranti per tutte le fasce di reddito fino a 20mila euro, che calano da 23,133 a 22,356 milioni.

Sicuramente condizionato dalla ripresa Covid-19, quello che emerge dall’ultimo Osservatorio sulla spesa pubblica e sulle entrate Itinerari Previdenziali sembrerebbe un quadro in apparenza positivo se non fosse che, dati alla mano, resta sostanzialmente invariata la quota di contribuenti che effettivamente sostiene il Paese con tasse e contributi, e di contro troppo alta quella di cittadini totalmente o parzialmente a carico della collettività: malgrado il miglioramento di Pil e occupazione, il 45,16% degli italiani non ha redditi e di conseguenza vive a carico di qualcuno. Su 42 milioni di dichiaranti, poi, il 75,57% dell’intera Irpef è pagato da circa 10 milioni di milioni di contribuenti, mentre i restanti 32 ne pagano solo il 24,43%.

Come garantire innanzitutto la sostenibilità innanzitutto del nostro sistema di protezione sociale ma, più in generale, produttività e sviluppo del Paese se il grosso del carico fiscale grava su una ristretta minoranza? Questa la domanda che ha animato questo pomeriggio presso la nuova Aula dei Gruppo Parlamentari il convegno “Il difficile finanziamento del welfare italiano”, nel corso del quale sono stati presentati a politica e media i risultati dell’indagine annuale realizzata dal Centro Studi e Ricerche presieduto dal Prof. Brambilla. Realizzato in collaborazione con Cida, anche quest’anno tra i sostenitori della ricerca, l’Osservatorio realizza un’analisi delle dichiarazioni individuali dei redditi Irpef e delle altre principali imposte dirette e indirette (tra cui Irap, Ires, Isost e gettito Iva), con l’obiettivo di ottenere indicatori utili a comprendere l’effettiva situazione socio-economica del Paese e a verificare la tenuta del suo sistema di protezione sociale.

“Le dichiarazioni Irpef rese l’anno scorso fotografano una positiva tendenza dell’occupazione, che è tornata a crescere, e questo non può che farci piacere. Se aumenta il numero di contribuenti relativamente alle fasce medie significa che abbiamo maggiori speranze di garantire sostenibilità al welfare pubblico in futuro. Ecco perché è importante non tradire il ceto medio. Tassarlo oltre a quanto già non si faccia, proprio ora che inizia a rinfoltirsi, potrebbe avere effetti recessivi sull’intera dinamica”, – ha commentato Stefano Cuzzilla,  presidente Cida.

“Il motivo? Perché In Italia vale il principio che maggiore è il contributo fiscale, minori sono i servizi pubblici di ritorno – chiarisce il presidente -. Quindi chi guadagna, ad esempio, dai 55.000 euro in su (oggi poco più del 5 % del totale) si fa carico da solo di circa il 42% del gettito fiscale e non riceve nulla in cambio. A peggiorare il quadro arriva la nuova Manovra, con tagli ai massimali delle detrazioni a partire dai 75.000 euro che, di fatto, rappresentano un aumento di tassazione per chi contribuisce di più. Si trasmette così un messaggio allarmante: che in Italia non conviene eccellere, produrre o innovare. Conviene, invece, evadere e occultare”.

“Non a caso, un quinto dei contribuenti italiani dichiara redditi minimi o nulli. Una fetta consistente che non è degna di una delle più grandi potenze industrializzate. Un Paese che, purtroppo, vive di assistenza e assistenzialismo, mentre affonda nell’economia sommersa. Basti pensare che in 10 anni la spesa per il welfare è aumentata del 30% a causa di una vertiginosa spesa in assistenza, pari a +126%. Di fatto, nel nostro sistema fiscale il peso per chi produce e contribuisce è ormai insostenibile – conclude Cuzzilla -. Mentre l’inflazione ha mangiato il 24% del potere d’acquisto in 15 anni, questa minoranza continua a sostenere sanità, assistenza sociale e servizi per tutti, spesso senza alcun beneficio diretto. Mi chiedo fino a quando sarà disponibile a farlo”.

Il difficile finanziamento del welfare italiano – Come rilevato dal Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali, nel 2022 sono statati necessari 131 miliardi per la spesa sanitaria, oltre 157 per l’assistenza sociale e altri circa
13 miliardi per il welfare degli enti locali. Un conto totale che supera i 300 miliardi che, in assenza di tasse di scopo (come, ad esempio, accade per le pensioni che sono in attivo al netto dell’IRPEF), viene finanziato attingendo fiscalità generale: a queste sole 3 voci di spesa sono state dunque destinate nell’ultimo anno di rilevazione pressoché tutte le imposte dirette Irpef, addizionali, Ires, Irap e Isost e anche 23,77 miliardi di imposte indirette, in primis l’IVA. «Negli ultimi 15 anni i redditi dichiarati sono aumentati del 21,44%, mentre la spesa per il welfare è cresciuta di circa il 38%, trainata soprattutto da quella assistenziale, il cui valore tende ormai ad avvicinarsi pericolosamente al gettito dell’IRPEF ordinaria. Basta questo semplice confronto per capire come si sia davanti a un onere, già oggi e ancora di più in futuro, molto gravoso da sostenere – ha commentato il Prof. Alberto Brambilla, curatore del volume insieme al dott. Paolo Novati – e che lascia ad altre funzioni statali, indispensabili allo sviluppo del Paese (come scuola, infrastrutture, investimenti in capitale e così via), solo le residuali imposte indirette, le accise e la strada del debito. Debito che ogni anno aumenta spaventosamente nella totale indifferenza generale e, infatti, siamo il fanalino di coda in Europa per occupazione e produttività».

Redditi dichiarati e tipologie di contribuenti: un Paese di poveri? – Su una popolazione di 59.030.133 cittadini residenti sono 42.026.960 quanti hanno presentato una dichiarazione dei redditi nel 2023 (con riferimento all’anno di imposta precedente). A versare almeno 1 euro di IRPEF solo 32.373.363 residenti, vale a dire poco più della metà degli italiani: a ogni contribuente corrispondono quindi 1,405 abitanti.  

Nel dettaglio, fino a 7.500 euro lordi si collocano 9.330.900 soggetti, il 22,20% del totale, che pagano in media 20 euro di IRPEF l’anno (14 se rapportati ai cittadini). I contribuenti che dichiarano redditi tra i 7.500 e i 15.000 euro lordi l’anno sono 7.626.579: in questo caso, al netto del TIR, l’IRPEF media annua pagata per contribuente è di 294 euro (209 euro per abitante), a fronte – a titolo esemplificativo – di una spesa sanitaria pro capite pari di circa 2.221 euro. Tra 15.000 e 20.000 euro di reddito lordo dichiarato si trovano 5,4 milioni di contribuenti, che pagano un’imposta media annua di 1.761 euro, che si riduce a 1.254 euro per singolo abitante; seguono da 20.001 a 29.000 euro 9,5 milioni di contribuenti, con un’imposta media di 3.612 euro che si scende a 2.571 se rapportata al totale degli abitanti: un importo che, come per la fascia successiva, basterebbe di per sé a coprire i costi della sanità, ma che resterebbe comunque insufficiente guardando alle altre principali funzioni di welfare non coperte da contributi di scopo, tra cui appunto l’assistenza. Seguono quindi i redditi tra 29.001 e 35mila euro, fascia in cui si collocano 3.754.371 contribuenti pari a 5.273.306 abitanti: questi contribuenti, l’8,93%, pagano un’imposta media di 6.138 euro l’anno, 4.370 euro per abitante, e versano complessivamente il 12,17% delle imposte.

Percentuale di imposte pagate per scaglione di contribuenti

Sommando tutte le fasce di reddito fino a 29mila euro, si evidenzia dunque che il 75,80% dei contribuenti italiani versa soltanto il 24,43%: di tutta l’IRPEF: una fotografia più vicina a quella di un Paese povero che di uno Stato membro del G7 e che parrebbe oltretutto poco veritiera guardando a consumi e abitudini di spesa degli italiani. A salire, la scomposizione mostra invece quei poco più di 6 milioni di versanti con redditi superiori ai 35mila euro che, nella sostanza, si fanno carico del finanziamento del nostro welfare state. Più precisamente, esaminando le dichiarazioni relative agli scaglioni di reddito più elevato, sopra i 100mila euro, l’Osservatorio individua solo l’1,56% dei contribuenti (poco più di 650mila persone) che, tuttavia, versano il 23,59% del totale IRPEF. Sommando loro anche i titolari di redditi lordi da 55.000 a 100mila euro (che sono 1.635.728, il 3,89% del totale, e pagano il 18,11% del totale delle imposte), si ottiene che il 5,45% paga il 41,69% dell’IRPEF. Includendo dunque anche i redditi dai 35.000 ai 55mila euro lordi, risulta pertanto che il 15,26% paga il 63,39% dell’imposta sui redditi delle persone fisiche.  Ricomprendendo infine anche lo scaglione 29mila-35mila euro, “autosufficiente” su quasi tutte le funzioni di welfare salvo una quota di assistenza, si ottiene che il 24,20% dei contribuenti corrisponde il 75,57% dell’IRPEF complessiva e, si suppone, una quota altrettanto rilevante delle altre imposte.

La redistribuzione della ricchezza e le proposte di riforma fiscale – Sintetizzando, dall’Osservatorio emerge sì una riduzione dei dichiaranti con redditi bassi in favore di quelli medio-alti ma, anche per effetto di bonus e detrazioni, non ci sono invece variazioni sostanziali nella ripartizione del carico fiscale che pesa sulle spalle di uno sparuto ceto medio, escluso invece dalla maggior parte delle agevolazioni. «Giusto aiutare chi ha bisogno, così come garantire a tutti diritti primari come quello alla salute – la precisazione del Prof. Brambilla – ma i nostri decisori politici tendono spesso a trascurare come queste percentuali dipendano anche da economia sommersa ed evasione fiscale per le quali primeggiamo in Europa: è davvero credibile che quasi la metà degli italiani viva con circa di 10mila euro lordi l’anno?». Tra i falsi miti sfatati dalla pubblicazione c’è di riflesso quello dell’oppressione fiscale, che vuole (tutti) i cittadini tartassati dal fisco e penalizzati delle eccessive imposte. Solo per pagare la spesa sanitaria, per i primi 2 scaglioni di reddito fino a 15mila euro, la differenza tra l’IRPEF versata e il costo della sanità supera i 50 miliardi; la differenza sale a 57,8 miliardi sommando i redditi da 15 a 20mila euro. Considerando anche spesa assistenziale e welfare degli enti locali, la redistribuzione totale è pari a 240,56 miliardi su circa 661 di entrate, al netto dei contributi sociali. In pratica, viene redistribuito l’86,33% di tutte le imposte dirette (circa 278 miliardi) a beneficio soprattutto del 53,19% degli italiani delle prime tre fasce fino 20mila euro e, in parte, al restante 22,61% corrispondente ai dichiaranti tra i 20 e 29mila euro. «Un costante trasferimento di ricchezza, sotto forma di servizi gratuiti di cui quest’enorme platea di beneficiari non si rende neppure conto – puntualizza Brambilla – anche a causa delle ripetute promesse di nuove elargizioni da parte della politica, cui fa da contraltare la continua minaccia di abolizione delle tax expenditures per i redditi più alti». Redditi, che  peraltro già scontano l’italico paradosso secondo il quale più tasse si pagano e meno servizi si ricevono (e viceversa): una situazione che rischia di penalizzare quanti contribuiscono regolarmente incentivando i cittadini a evadere o a sotto-dichiarare così da non rinunciare a prestazioni sociali o altre agevolazioni da parte di Stato, Regioni e comuni.

Per il Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali è dunque il momento di lavorare, in ambito fiscale, su soluzioni nuove, concretamente calate sulla realtà del Paese. Se il contrasto di interessi tra clienti e fornitori diretti di beni e servizi potrebbe rivelarsi un ottimo modo per favorire l’emersione e al tempo stesso agevolare le finanze delle famiglie italiane, un maggiore sviluppo del welfare aziendale, insieme alla detassazione di premi, aumenti salariali e straordinari, potrebbe essere la giusta via per ridurre il cosiddetto cuneo fiscale-contributivo a carico dei lavoratori dipendenti in modo equo e sostenibile per le finanze dello Stato.  Certamente, secondo il Professore, più della decontribuzione, che negli ultimi 3 anni ha portato a un mancato gettito nelle casse INPS pari ad almeno 66 miliardi.

L’Osservatorio sulla spesa pubblica e sulle entrate “Le dichiarazioni dei redditi 2022: l’analisi Irpef e delle altre imposte dirette e indirette per importi, tipologia dei contribuenti e territori negli ultimi 15 anni” è disponibile per la consultazione a  questo link.