TESTO di Andrea De Tommasi della Redazione ASviS, il cui Comitato scientifico è presieduto dal prof. Enrico Giovannini, che si riferisce al sito collegato del 18 ottobre 2024
La fame è una delle piaghe più devastanti del Ventunesimo secolo. Nonostante qualche progresso negli ultimi due decenni, nel 2023 ben 733 milioni di persone hanno sofferto la fame, pari al 9,1% della popolazione mondiale, con un’incidenza allarmante in Africa (una persona su cinque). La malnutrizione continua a colpire 150 milioni di bambini, e per circa tre milioni di loro ogni anno la lotta finisce tragicamente con la morte.
A settembre Qu Donqyu, direttore generale della Fao, ha lanciato un messaggio chiaro ai ministri dell’Agricoltura riuniti a Siracusa per il G7: “Senza maggiori finanziamenti e azioni più incisive, il mondo continuerà ad allontanarsi dall’obiettivo di debellare la fame, l’insicurezza alimentare e la malnutrizione in tutte le sue forme entro il 2030”.
Davanti a questi dati così sconvolgenti, e con la prospettiva di sfamare quasi dieci miliardi di persone entro la metà del secolo, è naturale sperare in una soluzione, magari di natura tecnologica, che possa risolvere una volta per tutte il problema della fame. Tra le opzioni più dibattute ci sono gli Ogm, ma rappresentano davvero quella vincente?
Un po’ di storia
Gli organismi geneticamente modificati (Ogm) sono piante o animali il cui Dna è stato modificato, utilizzando l’ingegneria genetica, per ottenere caratteristiche benefiche. Nel caso delle colture, gli interventi più comuni riguardano la resistenza ai parassiti, l’aumento della resa e la tolleranza alla siccità.
I primi Ogm usati in agricoltura risalgono agli anni ’90: il pomodoro Flavr Savr, sviluppato da una piccola azienda biotech californiana di nome Calgene, è considerato il primo alimento geneticamente modificato approvato per la vendita agli esseri umani. Flavr Savr era stato modificato affinché mantenesse la freschezza per almeno 30 giorni. Era il 1994 e la manipolazione genetica veniva considerata da molti un potenziale miracolo. Tuttavia, nonostante l’interessa iniziale, il Flavr Savr non ebbe successo, a causa di problemi economici e logistici e per un gusto assai poco gradevole. Venne ritirato dal mercato dopo pochi anni. Nel frattempo, altre aziende avevano lavorato a soluzioni alternative.
La svolta arrivò con la soia Roundup Ready, creata dalla Monsanto (oggi Bayer), una delle prime colture Ogm a essere prodotte su larga scala. Questa varietà di soia fu modificata per resistere all’erbicida glifosato, consentendo agli agricoltori di eliminare le erbacce senza danneggiare le piante di soia.
In alcuni casi gli Ogm hanno mantenuto le loro promesse. Un esempio è il mais Bt (Bacillus thuringiensis), che grazie alla sua proteina tossica per alcuni insetti ha ridotto l’uso di insetticidi chimici, con vantaggi sia ambientali che economici.
Ancora meglio è andata con le coltivazioni non alimentari come il cotone Bt, anch’esso sviluppato per resistere agli insetti, in particolare al verme del cotone. In Paesi come l’India, questa scoperta ha migliorato la produttività e ridotto l’uso di pesticidi.
Le posizioni in campo
I consumatori sono stati piuttosto cauti verso gli Ogm. Anche se negli ultimi 20 anni i sondaggi hanno evidenziato un apprezzamento crescente per i cibi geneticamente modificati, le preoccupazioni per la sicurezza e le loro applicazioni future persistono. Le associazioni ambientaliste li hanno spesso bollati come innaturali, sottolineando i rischi per la salute e l’ambiente, e la loro difficile coesistenza con colture non Ogm. Sul fronte ambientale, il pericolo maggiore della coltivazione di piante Ogm è identificato nella perdita di biodiversità a causa della contaminazione di piante selvatiche e dell’uso di diserbanti. Riguardo ai rischi sulla salute, ad oggi le prove sugli effetti negativi degli Ogm sugli esseri umani sono ancora insufficienti. Tuttavia negli esperimenti sugli animali sono stati identificati alcuni eventi avversi, tra cui mortalità, tumore o cancro, significativa bassa fertilità, riduzione delle capacità di apprendimento e reazione e alcune anomalie degli organi. Per informazioni più approfondite è utile consultare questo studio condotto da un team internazionale di scienziati e pubblicato sulla rivista Environmental Sciences Europe (Eseu) di Springer. Molti hanno criticato la concentrazione nelle mani di poche multinazionali, che detengono la proprietà intellettuale delle sementi Ogm.
L’Europa ha adottato storicamente una posizione restrittiva sugli Ogm, adottando il principio di precauzione (precautionary principle) che ispira il policy making europeo, mirato a minimizzare gli effetti potenzialmente dannosi sull’ambiente e sulla salute umana.
Qualsiasi Ogm deve ricevere l’approvazione dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (Efsa) prima di essere coltivato o venduto, ma i singoli Stati membri possono decidere se consentirne la coltivazione sul proprio territorio. Nel 2024 la coltivazione di Ogm in Europa è assai limitata, con poche eccezioni come il mais MON810, che però è vietato in Paesi come Francia e Germania.
Un cambio di rotta si è visto a luglio 2023, quando la Commissione europea ha proposto un nuovo regolamento, poi sostenuto dal Parlamento, sulle piante ottenute tramite Nuove tecniche genomiche (Ngt), in Italia battezzate Tea, Tecniche di evoluzione assistita. L’idea di fondo è che queste piante, che non utilizzano materiale genetico estraneo, potrebbero essere considerate equivalenti alle piante convenzionali e perciò esentate dai rigidi requisiti della legislazione sugli Ogm. È la posizione sostenuta anche dal governo italiano, che ha espresso soddisfazione per le nuove norme Ue, sulle quali però non è stato ancora trovato un accordo in sede di Coreper, il Comitato dei rappresentanti permanenti dei governi degli Stati membri dell’Unione europea.
Meno restrizioni e approvazioni più rapide, invece, negli Stati Uniti, uno dei maggiori produttori mondiali di colture Ogm come mais, soia e cotone. Ad oggi, oltre il 90% della soia e del mais coltivati negli Usa sono geneticamente modificati, e gli alimenti Ogm non richiedono un’etichettatura obbligatoria a livello federale. Più ambigua la posizione della Cina, che oscilla tra una forte apertura verso la tecnologia e una cautela nel permettere l’adozione degli Ogm su larga scala.
Disuguaglianza alimentare
Le evoluzioni legislative sono senz’altro importanti, ma c’è un problema più grande da affrontare. Gli esperti ci dicono che viviamo in un mondo che produce già abbastanza cibo, ma lo distribuisce in maniera iniqua. Gian Paolo Cesaretti, presidente della Fondazione Simone Cesaretti e coordinatore del Gruppo di lavoro ASviS sul Goal 2 “Sconfiggere la fame”, sottolinea che la questione della sicurezza alimentare globale “non è un tema di capacità produttiva”. Oggi si potrebbe produrre cibo sufficiente “per soddisfare anche 13 miliardi di persone”. Il problema principale è l’accesso al cibo, che è sia fisico che economico, e riguarda “il potere d’acquisto delle persone” e la loro “prossimità alle risorse alimentari”. Non si può giustificare una dipendenza dei Paesi poveri da quelli ricchi, affermando che quest’ultimi debbano produrre cibo per alimentarli, perché ciò equivale a “nascondersi dietro al dito”.
Secondo Cesaretti l’utilizzo su larga scala degli Ogm rischia di “rendere i Paesi in via di sviluppo dipendenti dalle multinazionali”, ripetendo quello che già succede con le sementi e aggravando ulteriormente le disuguaglianze a scapito delle popolazioni vulnerabili. La soluzione, ci dice, va ricercata altrove: “Dobbiamo percorrere la strada del diritto a produrre nei territori”, ossia intensificare le produzioni nei Paesi in via di sviluppo, poiché questo approccio avrebbe anche “ripercussioni positive sul cambiamento climatico”. Infine, l’esperto riconosce che “l’innovazione deve andare avanti per la propria strada”, ma avverte che la questione degli Ogm potrebbe trasformarsi in un problema politico, esattamente come accade oggi con le “auto elettriche che non riescono ad andare avanti se non sono sussidiate”.
Nuove prospettive
Se vista da questa prospettiva, la battaglia contro la fame richiede soluzioni che vadano oltre il semplice aumento della produzione agricola o del valore nutrizionale dei cibi (con qualsiasi metodo). L’instabilità politica e le guerre, oltre a modelli basati sulla “cultura dello scarto”, aggravano il fenomeno. La perdita di biodiversità nel comparto alimentare è un altro problema cruciale: secondo un rapporto pubblicato qualche anno fa dalla Fao, delle seimila specie vegetali coltivati sul pianeta meno di 200 contribuivano attivamente alla produzione di cibo. Pur riconoscendo che la modifica genetica può aiutare in determinate situazioni, l’Organizzazione invita a esplorare nuove soluzioni, a cominciare dalle altre biotecnologie. Queste vanno dalle più semplici (low-tech), come biofertilizzanti, biopesticidi, inseminazione artificiale nel bestiame e uso di bioreattori nella lavorazione alimentare, a quelle più avanzate (high-tech), come le metodologie basate sulla reazione a catena della polimerasi (Pcr) per diagnosticare malattie.
Possono aiutare i piccoli agricoltori nei Paesi in via di sviluppo? Sì, e questo è stato dimostrato da molti casi di studio. Ad esempio, le varietà New Rice for Africa (Nerica) combinano, utilizzando le biotecnologie, le rese elevate del riso asiatico con la capacità del riso africano di prosperare in ambienti difficili. Vengono coltivate con successo ogni anno su circa 200mila ettari di aree montuose nell’Africa subsahariana. In India, l’uso di metodi basati sul DNA per rilevare i patogeni è stato un componente chiave per i piccoli allevatori di gamberi nell’Andhra Pradesh.
Il discorso può essere esteso a tutte le evoluzioni dell’agricoltura 4.0. Pensiamo all’agricoltura di precisione, l’agroecologia (inclusa l’agricoltura biologica), il sequestro del carbonio nei suoli e l’agroforestazione. Sfruttando il potenziale ancora inespresso dell’economia circolare, si potranno progettare sempre più prodotti duraturi e utilizzare prodotti di scarto ancora ricchi di elementi nutritivi. E naturalmente occorrerà minimizzare l’utilizzo di risorse non rinnovabili.
Un gruppo internazionale di scienziati riuniti in Ipes-Food ha proposto un modello noto come “sistemi agroecologici diversificati”, che punta a diversificare le produzioni e i paesaggi agricoli, sostituire progressivamente gli input chimici, consolidare le interazioni tra le diverse specie. Un approccio che consentirebbe nel lungo periodo di mantenere la fertilità dei suoli e l’integrità degli ecosistemi agricoli.
La sfida, dunque, non è solo produrre più cibo, ma farlo in modo equo e sostenibile. Le colture geneticamente modificate possono avere un ruolo, ma andranno inserite in un contesto più ampio, fatto di azione politica e riduzione della violenza sui territori, innovazioni tecniche e sforzi per porre fine alla povertà.