Torinodanza, i lupi mannari sfrenati e analogici di Laskaridis

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Torino, 24 ott. (askanews) – Uno spettacolo senza freni e senza confini, provocatore e ingenuo, affascinante e disorientante, divertente e ibrido. Alle Fonderie Limone di Moncalieri ha debuttato in prima nazionale a Torinodanza “Lapis Lazuli” dell’artista e performer greco Euripides Laskaridis. Un’esperienza surrealista e gotica, d’avanguardia, ma al tempo stesso ammiccante, sospesa tra tante pratiche senza incarnarne nessuna in modo completo, se non quella, vastissima e comunque imprescindibile, del “teatro”, nell’accezione più ampia dell’idea.

Il protagonista è un lupo mannaro e le ambientazioni sono spesso gotiche, ma lo spettacolo ha la dote di cambiare appena si pensa di averlo in qualche modo decifrato, per quanto sia possibile decifrarlo solo in parte e, probabilmente, solo con interpretazioni che non possono prescindere dall’esperienza individuale e personale di ogni spettatore. E quindi anche definire solo in questa chiave moderatamente horror la messa in scena sarebbe molto limitante e, in fondo, non sarebbe vero. Perché “Lapis Lazuli” è un lavoro che rilancia di continuo, che, forse anche in maniere troppo vistose, con molto mestiere e una brillante furbizia, spinge con ogni scena un po’ più in là il confine della stravaganza, che però vive anche di riferimenti costanti ed espliciti al mainstream, all’immaginario collettivo e agli archetipi culturali della nostra società globalizzata. In più di un momento è possibile pensare che si stia vedendo la trasposizione grottesca di uno spettacolo della Disney, ma uno spettacolo scritto da uno sceneggiatore pazzo. Il che rende tutto più movimentato, ma anche straniante.

Dov’è la danza, si sente chiedere in sala, e in effetti ce n’è meno di quanta, probabilmente, in molti si sarebbero aspettati. In realtà poi c’è: sotto il rumore dei ruggiti del lupo, degli spari e delle urla della ragazza in fuga nella notte ci sono infatti molti movimenti corografici che il fatto di avvenire in un contesto caotico non rende meno impegnativi e consapevoli. Più che ai protagonisti la corografia è affidata alle figure sullo sfondo, che in quello strano mondo fantastico della storia impersonano alberi oppure cani o ancora proprio il buio che cala e abbraccia le nostre angosce. Come cade una pianta nella tempesta, oppure come avanza un cane invasato: sono questi alcuni dei movimenti chiesti ai performer, e sono gesti che hanno un peso, a prescindere dal resto.

Secondo il foglio di sala del teatro torinese “Lapis Lazuli evidenzia la lotta interiore dell’uomo tra gli istinti primitivi e le facoltà superiori dell’intelletto e dello spirito”: questa componente sicuramente è presente, ma forse non è così rilevante nella somma emotiva dello spettacolo. Perché se queste sensazioni stanno sulla superficie della drammaturgia, scavando più in profondità si possono trovare molti riferimenti culturali, molto gioco anche, ma pure un continuo confronto con le manifestazioni dell’arte e soprattutto con la cultura popolare, nel senso di ciò che raggiunge il grande pubblico. E una fanciulla in abito bianco inseguita da un mostro licantropo è sicuramente parte di questo immaginario, ma il modo in cui la scena viene porta sul palco è talmente eccessivo e a più strati da andare immediatamente al di là del mainstream, potremmo azzardare addirittura a scrivere che ci porta nel meta-mainstream. Che è il territorio dei Mc Luhan, ma anche di Roland Barthes e Umberto Eco, se vi piace: un territorio profondamente culturale nel suo essere radicato sul palcoscenico di massa. A questo, più che ad altre filosofie, sembra guardare il lavoro di Laskaridis, che nella parte finale fa ripetere al suo protagonista una sorta di mantra: “What a wonderful, wonderful show; what a difficult, difficult life”. Lo show è meraviglioso prescindere, la vita, a prescindere, è complicata. Sembra lapalissiano, e infatti stiamo parlando di mainstream, luogo per eccellenza dell’ovvietà trasformata in oggetto culturale, più o meno di valore. “Lapis Lazuli” potrebbe ragionare esattamente su questo passaggio, ma in fondo è probabile che, pure questa, sia solo un’illazione personale.

Quello che invece è indubitabile è la componete analogica che sostiene i molti, moltissimi “effetti speciali” dello spettacolo. Tutto è fatto senza ricorrere al digitale, tutto è “reale”, ci sono delle persone che stanno dentro un albero, o che fanno volare con un lungo bastone degli uccelli, che muovono le luci sulla scena, che sostengono la luna oppure fanno sembrare infuocata e incandescente una semplice carta metallizzata. E funziona, funziona meravigliosamente. Nell’assurdità surreale dei personaggi e del racconto, questi oggetti e i gesti che li rendono possibili si conquistano una dimensione ontologica di realtà, sono un antidoto all’intossicazione tecnologica e alla pretesa che senza (tecnologia) non si possa fare nulla. Il teatro di “Lapis Lazuli” è fatto interamente così, e anche questa forse è una delle caratteristiche che lo rendono uno show gioiosamente consapevole e trasgressivo. Ben di più degli ululati ammiccanti del licantropo. (Leonardo Merlini)