Sulla pittura di Giuseppe Leone, una feroce levigatezza

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di Dario Giugliano

Definire Peppe Leone un artista, per quanto possa essere corretto, rischia di essere troppo generico, perché egli è soprattutto un pittore, volendo indicare lo specifico estetico da cui parte e a cui fa costante ritorno, quasi in un’ossessione per la superficie dipinta, sia essa tavola o tela. Certo, Leone lungo la sua carriera ha sperimentato anche altre forme d’espressione, che lo hanno visto avvicinarsi alla plastica, al modellato, finanche alla scrittura, per quanto sempre sviluppata su piano pittorico (da ricordare, per esempio, la sua collaborazione con Luciano Caruso, all’origine di una serie di opere firmate da entrambi, che avevano come soggetto principale proprio la scrittura – ossessione centrale proprio del lavoro di ricerca di Caruso), ma non ostante tutto ciò, per me, Leone resta un pittore.
Nel senso più proprio del termine, un pittore è sempre un cultore della superficie e della relativa levigatezza. Ciò che è levigato (nel senso proprio di quanto immediatamente si percepisce come liscio, pulito, ma anche in quello morale di pacificato, conciliante), qui, indica altrimenti quanto è contenuto nel concetto di arte, in una sua parte, quella più antica. E ogni manifestazione artistica ne contiene comunque un rimando, un rinvio, per quanto risulti evidente che fin dall’origine, come ricorda Aristotele nella Poetica, l’espressione artistica ha sempre cercato di rifuggire da una assoluta e incontrovertibile levigatezza, manifestandosi pure come esposizione dello sconveniente, del conturbante, si direbbe con linguaggio odierno, di quello, insomma, che fa frizione con il comune sentire, con quanto è comunemente approvato come giusto e buono – e, di conseguenza, bello.
Ciò che è levigato, dunque.
Il termine greco antico leios, per levis latino, indicando appunto quello che è liscio, privo di asperità urtanti la sensibilità (in primis quella tattile, poi quella della cultura – l’ordine morale – da cui si proviene e di cui si consiste), parrebbe essere in contatto di derivazione con l’accadico lehu(m), che è all’origine pure del latino lex, la legge, e che traduciamo con tavola scritta, documento, tavoletta di legno. Le leggi, infatti, erano scritte su tavole, da un certo punto in poi, incerate, su cui si incideva il testo precettistico da tramandare. Il legno doveva essere levigato, liscio, per consentire l’operazione della scrittura; levigatezza che col tempo si perfezionerà con lo stendere un velo di cera sulla superficie della tavola, di modo da renderla, contemporaneamente, più liscia ancora e più morbida, duttile, arrendevole, così da offrire sempre meno resistenza all’operazione della scrittura-scalfittura-incisione. In qualche modo, quindi, tutto questo micro-universo di parole rinvia a un duplice senso, ossimorico, di dolcezza/asperità, cedevolezza/forza – duplicità ossimorica che è alla base del concetto stesso di legge, se ci si riflette. Infatti, la legge come istituzione non potrà mai prescindere da un certo esercizio dell’imposizione, che, in quanto tale, contemplerà sempre l’uso di una certa (forzata) obbligatorietà, tipica del vincolo giuridico; e, nello stesso tempo, essa mai potrebbe veder dispiegato il suo medesimo esercizio, senza la condizione preliminare della sospensione di ogni altro esercizio costrittivo, tanto da richiedere per sé null’altro che l’auspicabilità di un’adesione spontanea (e questa, invero, costituirebbe sempre il presupposto in quanto vera forza di ogni istituzione legislativa).
E un misto di forza (esplosioni di colore, violenti graffi e incisioni sul piano della superficie dipinta, accompagnati dalla presenza di oggetti acuminati – come uno stilo o un chiodo – conficcati sulla tavola e, specificamente, su elementi in rilievo, presenti sulla medesima, come nell’opera “La ferita di Tiresia” o, ancora, in “Versi sopra lo sterile terreno”, in cui, rispettivamente, un chiodo e una serie di chiodi risultano confitti nell’occhio di una delle due figure a rilievo – calco del volto dello stesso Leone – e sulla fronte della seconda di queste) e dolcezza anima tutto il lavoro di ricerca di Leone. A scanso di equivoci, però, occorre subito dire che il risultato finale, a mio avviso, lascia pendere decisamente a favore della seconda il sentimento complessivo che si può raccogliere dalla visione delle opere di Leone, che resta, da questo punto di vista, un pittore dell’istituzione e nell’istituzione. Mi spiego, sinteticamente, dato il poco spazio a mia disposizione. Se è vero che l’arte occidentale (intendendo, con questa espressione, la totalità della produzione artistica occidentale, a partire dal senso che le si conferisce nella contemporaneità in cui siamo) si manifesta a partire dalla condizione (metafisica) della libertà, l’artista, ogni artista (quale che sia il suo specifico), consapevolmente o meno, ha davanti a sé due strade, preliminari a ogni possibilità di espressione: accettazione o rifiuto della tradizione (di cui e da cui egli stesso è insieme agente e agito). Chiaramente, questa dialettica “accettazione vs rifiuto” non deve mai essere considerata come rigidamente bloccata e le sfumature tra le due posizioni possono pur essere indefinite, ma resta sempre la condizione d’avvio secondo cui, data una tradizione di riferimento (le istituzioni artistiche su cui tanto insisteva Anceschi), ogni artista è chiamato, preliminarmente, a scegliere se continuarla o rifiutarla. Questa decisione fa corpo stesso, come recto di un verso, con la necessità d’espressione, che mai potrebbe darsi separatamente da quella. E se gli artisti del rifiuto possono essere considerati altresì artisti dell’eccesso, della contestazione, dell’avanguardia, della rottura, del salto nel vuoto o del nichilismo; quelli della continuazione o accettazione saranno gli artisti della sperimentazione sì, della ricerca meticolosa la cui maestria sfiorerà pure la perizia artigianale, ma pur sempre nell’alveo conciliato di una regola che si tenderà a confermare e il cui effetto si vorrà seguire e prolungare. Ecco perché l’opera di Leone ci si presenta, pur se talvolta sotto l’aspetto inquietante della forza violenta (del colore come dell’espressione complessiva (penso, per esempio al ciclo “sardo”, con coltelli e pecore da sgozzare), sempre felicemente ed efficacemente gradita e gradevole allo sguardo, condizione questa che accompagna quello stato (di grazia delle forme, potremmo dire) in cui il pittore ha deciso di installarsi, quando, per esempio, afferma, in una intervista, per tanti aspetti sintomatica: “Sin dai tempi di Esther, quando io adoperavo la cartolina scritta dove la parola era già intrinsecamente visiva perché veniva fuori da una scrittura educata, tutta femminile, impaginata con gusto, io, da pittore, semplicemente inserivo quell’elemento di parola non mia, in un contesto pittorico che invece m’apparteneva di diritto. Poi in seguito ho anche scritto parole non mie. Frasi prima, poi parole, ed infine la scrittura si è trasformata in grafia, in segno, gesto, ed ha perso di significato, diventando nuovamente puro piacere pittorico. Mi interessava la parola come ‘formula’ da accostare alle ‘forme’ proprie della pittura. Ma evidentemente mi son sempre appartenute più le seconde”.