L’Italia è l’ultimo paese dell’Unione Europea per neolaureati e neodiplomati che trovano un’occupazione. Lo ha reso noto Eurostat: nel 2023 l’83,5% dei neolaureati e neodiplomati per la media europea aveva già un lavoro, mentre in Italia questa percentuale era al 67,5%. Terza economia d’Europa, ultima per occupazione giovanile qualificata. La competitività internazionale non si costruisce solo con investimenti industriali, ma anche con un esercito di giovani qualificati pronti a fare la differenza.
Ne parliamo con Emilio Rossi, Direttore Osservatorio Terziario Manageritalia e Oxford Economics, che ci ricorda di come solo il 31,2% dei giovani italiani tra i 25/29 anni ha una laurea mentre negli altri paesi europei la media di laureati supera il 50%. La posizione italiana è ancora più allarmante se si guarda il dettaglio delle competenze dei neolaureati, con la media dei laureati italiani in discipline STEM del 6,7% rispetto al 12-13% europeo. La struttura scolastica pre-universitaria è ancora sostanzialmente quella della Riforma Gentile di un secolo fa, con pochi cambiamenti risultanti dalle riforme Berlinguer, Moratti e Gelmini. Data la velocità dell’innovazione e la crescente necessità di interfacciarsi con il resto del mondo, con nuove tecnologie e culture/linguaggi differenti, una struttura pensata un secolo fa risulta arretrata per definizione e non corrispondente alle necessità di competenze delle imprese e del settore pubblico. Le conseguenze sono ovvie: scarsa capacità di ritenzione dei giovani laureati che trovano invece un ambiente più favorevole all’estero, ricorso crescente da parte delle imprese ai risultati della ricerca e delle innovazioni sviluppate all’estero, scarsa capacità di adozione delle nuove tecnologie da parte di consumatori. A questo si aggiunge la problematica dell’invecchiamento della popolazione, con l’Italia tra i paesi con più anziani al mondo e quindi strutturalmente meno capace di sviluppare nuove idee/soluzioni, sia in campo imprenditoriale che da parte dei policy maker.
La sintesi di questo panorama scoraggiante è la incapacità di concepire una visione di un futuro basata su quelle che saranno le tecnologie vincenti e sull’insieme di servizi che esse richiederanno. In assenza di questa visione anche la competitività del sistema industriale finirà presto con il soffrirne significativamente. Per esempio, il ritardo, già grave, che stiamo accumulando come paese sull’utilizzo dell’IA rischia di essere il colpo di grazia se non acceleriamo nella costruzione di competenze nelle università e con centri di ricerca specializzati.
Nella nostra penisola si scorda spesso che la spesa pubblica rappresenta oltre il 50% del pil (con buona pace di chi ripete la fake news del neoliberismo imperante) e resta inevitabile un ricorso a una nuova e profonda forma di “Spending review”, ancor di più se si intende credibilmente ridurre la pressione fiscale.
Rossi si dichiara su questi temi di tipo politico piuttosto “leopardiano”, ossia vicino al pessimismo cosmico. La narrazione del neoliberismo che sarebbe stato imperante in Italia negli ultimi decenni è totalmente falsa, purtroppo i media l’hanno sposata e la maggioranza degli italiani non ha voglia di approfondire. Una Spending Review seria è necessaria, così come una lotta senza quartiere all’evasione fiscale – ma non vedo in Italia alcun gruppo politico che voglia o che sia in grado di affrontare l’impopolarità delle scelte conseguenti, soprattutto in tema di pensioni e sanità che rappresentano le quote maggiori della spesa pubblica. Peraltro, nel nostro paese esistono ancora grosse sacche di rendite improduttive, balneari e taxi sono solo nodi che sicuramente andrebbero sciolti ma tutto sommato più simbolici che gravi. L’introduzione di regolamentazione pro-concorrenza anche negli appalti pubblici locali e la privatizzazione di fasce della previdenza e dell’assistenza potrebbe liberare risorse imprenditoriali ora costrette in un angolo ma che in Italia sono sempre state presenti. A proposito dell’evasione fiscale va detto che, a fronte degli sforzi già compiuti, anche portandone il livello in Italia al livello della Germania (idea alquanto utopistica) recupereremmo forse circa 40-50 miliardi – più realisticamente potremmo pensare ad un recupero di 25-30 miliardi. Al che occorrerebbe poi scegliere se destinare questo tesoretto a riduzione della pressione fiscale o (preferibilmente) a riduzione deficit – dividerlo salomonicamente a metà finirebbe per produrre risultati non significativi su entrambi i fronti.
Dagli anni settanta ad oggi, tutte le economie avanzate hanno sperimentato un accelerato processo di terziarizzazione. A livello globale il terziario vale circa il 70% del pil, con variazioni tra un paese e l’altro, in funzione della fase di sviluppo in cui si trovano. Si parla spesso di rivoluzione industriale dei servizi, caratterizzata da progresso tecnologico poderoso.
Come Osservatorio del Terziario di Manageritalia stiamo lavorando per far comprendere l’importanza del terziario per l’economia nazionale (il 74% del Pil), importanza ampiamente sottovalutata sia dai policy maker che dai media. Anche questa sottovalutazione è un effetto della miopia di un paese che invecchia, ancorato alla visione manifatturiera del sistema paese di vari decenni fa.
La strada per recuperare produttività del sistema Italia passa per due strade tra loro interdipendenti: 1) una maggiore attenzione da parte dei policy maker ai fondamentali di crescita nelle aziende dei servizi avanzati (in cui non rientra il turismo), accompagnata da riforme per un sistema finanziario più moderno (e creare nuovi canali di finanziamento delle imprese), per la sburocratizzazione e per maggiore concorrenza, soprattutto nei settori ad alto valore aggiunto (ICT, finanza e professioni), 2) la maggiore integrazione nelle imprese manifatturiere tra produzione e servizi avanzati (soprattutto digitalizzazione e IA), un processo che a sua volta richiede una forte crescita di competenze e managerialità. Per esempio, si pensi ai numerosi data center necessari per l’elaborazione dei big data e per l’IA. Oppure al fatto che oggi un’automobile utilizza mediamente circa 100 milioni di righe di codice nei software di bordo e che entro il 2030 saranno in un range compreso tra 500 milioni e un miliardo. Per fare questo salto qualitativo (che non si limita all’auto o ai data center ma a una gran parte di beni manufatti) occorrono competenze specifiche che sarà possibile sviluppare in casa e/o attrarre dall’estero solo tramite la creazione di nuovi istituti di ricerca, campus universitari avanzati e una maggiore integrazione tra Università e imprese. Se si considera che l’investimento per realizzare un Campus universitario è di circa 1,5 miliardi , forse i 15 miliardi per il Ponte sullo Stretto di Messina potrebbero essere spesi diversamente e con un maggiore impatto sulla produttività del sistema Italia.