Storia diplomatica: il trattato di Losanna

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Il 24 luglio 1923, il Trattato di Losanna concludeva una storia secolare, cioè la Questione d’Oriente legata al declino dell’Impero ottomano, che aveva tenuto in ansia l’Europa per generazioni. Vediamo in che modo finì l’impero e chi ne trasse vantaggio attraverso l’articolo “Ossessione ottomana” di Luigi Grassia, tratto dagli archivi di Focus StoriaLa Guerra greco-turca del 1920-1922, la vittoria del leader nazionalista Mustafa Kemal Atatürk e la nascita di una nuova Turchia laica sono eventi radicati nella consapevolezza storica europea. Ma c’è un risvolto di cui si parla meno: fra il 1918 e il 1922 Costantinopoli (l’attuale Istanbul) fu strappata all’ultimo sultano Mehmet VI e occupata dagli eserciti di Inghilterra, Francia e Italia. In questo contesto vennero prese decisioni fatali per i rapporti fra l’Occidente e l’islam.

Mentre greci e turchi combattevano la loro piccola ma feroce guerra locale, le potenze europee inquadravano i fatti nella politica mondiale e si arrabattavano su più fronti: spartirsi il Medio Oriente, contenere la nuova e minacciosa Russia comunista ,  fronteggiare la rivoluzione anti-imperialista che iniziava a dilagare in Asia e in Africa.L’Europa post-Grande guerra era scossa da rivolte di destra e di sinistra e già si profilava il revanscismo della Germania. I politici dell’epoca non si mostrarono all’altezza, ma probabilmente nessuno al posto loro avrebbe saputo fare meglio. In quel ginepraio a complicare le cose ci si mise l’Italia che, da potenza occupante a Costantinopoli, nelle fasi finali della partita, giocò un ruolo misconosciuto ma carico di conseguenze.

Già nel 1876 il primo re dell’Italia unita, Vittorio Emanuele II, aveva provato a risolvere con un atto di forza la Questione d’Oriente, ipotizzando una crociata pan-europea per “riconquistare” Costantinopoli con un esercito di 200mila uomini. Qualche anno dopo, fra il 1894 e il 1896, sotto Umberto I, provò a fare qualcosa di simile anche Francesco Crispi.

Sono pagine pressoché ignorate dalla storiografia italiana. Delle ambizioni di guerra in Oriente di Vittorio Emanuele II nel 1876 conosciamo i retroscena grazie a un rapporto dell’ambasciatore britannico in Italia, Augustus Berkeley Paget, citato dallo storico britannico Denis Mack Smith (1920-2017).

Il diplomatico riferì di un colloquio privato, in cui il re gli sottopose i suoi piani, con lo scopo di preparare il terreno a Londra, dopo aver già contattato gli imperatori d’Austria e di Germania: Vittorio Emanuele chiedeva nientemeno che “mano libera per risolvere la Questione d’Oriente, cacciare il sultano e sistemarlo in qualche regione dell’Asia Centrale; dopo di che, io direi alle altre potenze di papparsi tutto quel che vogliono nell’Impero turco, e io prenderei quelque petite chose per l’Italia”. Questo colloquio così sbalorditivo è del gennaio 1876 e non furono parole buttate lì a caso, perché ci fu un seguito nel maggio dello stesso anno: il re d’Italia fece sapere nuovamente a Londra di ambire a un ruolo attivo sullo scenario internazionale, perché era “contrario alla sua natura starsene con le mani in mano”. E in una successiva occasione aggiunse: “Se avessi 200mila uomini risolverei la questione balcanica”.

Un grande azzardo, un’assurdità? Guardando alle circostanze storiche del 1876, era tutt’altro che inverosimile pensare proprio allora di organizzare in Europa una guerra contro la Turchia e farla seguire da un congresso pan-europeo per regolare a tavolino le questioni balcaniche. Il 1876 è infatti l’anno della rivolta bulgara contro i turchi, destinata a portare nel 1878 all’avanzata russa fin quasi a Costantinopoli, autorizzata (incredibile a dirsi) da tutte le altre potenze europee, anche le più ostili allo zar. E alla fine fu il Congresso di Berlino a prendere grandi decisioni sul riassetto continentale. Insomma, la situazione era fluida, sarebbe bastato trovare la combinazione diplomatica giusta, e i propositi di Vittorio Emanuele avrebbero anche potuto realizzarsi, come era successo tante volte in passato ad altri Savoia (e allo stesso Vittorio Emanuele con l’unificazione italiana) grazie a un misto di azzardo, coraggio, abilità e fortuna.

Nel 1876 la combinazione diplomatica non si trovò, ma il progetto del re non era poi così campato per aria. Una ventina d’anni dopo l’Italia provò a organizzare un altro intervento militare europeo in Oriente, in circostanze per certi versi analoghe a quelle della rivolta bulgara: L’Inghilterra valutò un attacco dissuasivo alla Turchia e il nostro primo ministro Francesco Crispi “si mostrò disponibile a inviare una parte della flotta italiana per affiancarsi a quella britannica“, come rivela un documento portato alla luce dallo storico Enrico Serra presso il Record Office di Londra. Anche in quel caso non se ne fece nulla.

Invece il 19 luglio 1912 la flotta italiana andò davvero, e stavolta da sola, all’attacco di Costantinopoli. Le nostre torpediniere penetrarono lo Stretto dei Dardanelli, sfidando le batterie costiere turche e i campi minati. Pur non riuscendo a colpire, come si proponevano, la flotta nemica all’ancora, diedero un contributo alla vittoria italiana nella guerra in Libia (possedimento turco) allora in corso.Gli attacchi italiani in Libia e nei Dardanelli furono tra le cause (seppure secondarie) della Prima guerra mondiale, perché indebolirono la Turchia, incoraggiando le guerre balcaniche del 1912-1913, e indirettamente incoraggiarono il nazionalismo balcanico che portò all’attentato di Sarajevo del 1914. Tutto si lega, e l’Italia (nel bene e nel male) è stata più protagonista di quanto si tenda a pensare. Così nel 1918 quando le forze dell’Intesa, senza colpo ferire, sbarcarono a Costantinopoli, capitale di un impero ormai spossato e in disarmo, assieme agli inglesi e ai francesi c’era anche un contingente italiano. E qui si verificò un episodio davvero curioso.

Fin dai tempi dei dogi era esistito Costantinopoli un Palazzo di Venezia che ospitava l’ambasciata della Serenissima. Nel 1797, con l’annessione di Venezia all’Austria, l’edificio era stato trasformato nell’ambasciata asburgica presso la Sublime Porta, e tale era rimasto anche dopo che l’Italia aveva strappato il Veneto all’Austria con la guerra del 1866. Insomma, gli Asburgo erano stati costretti a mollarci Venezia, ma non il Palazzo di Venezia a Costantinopoli. L’occasione per metterci le mani si presentò nel 1918 con la sconfitta dell’Austria e la partecipazione italiana all’occupazione alleata di Costantinopoli.In termini legali, non avremmo avuto alcun diritto di prenderci quell’edificio, destinato a confluire in una specie di fondo comune inter-alleato. Ma il 1° dicembre del 1918 un diplomatico italiano, il conte Carlo Sforza, che si trovava a Costantinopoli come alto commissario italiano per l’attuazione dell’armistizio con l’Impero ottomano, prese una decisione temeraria: ordinò a un gruppo di marinai italiani, a bordo delle nostre navi militari alla fonda, di marciare per le vie della città e di occupare con la forza il Palazzo di Venezia. Gli austriaci che ancora vi si trovavano furono presi per gli stracci e buttati fuori a calci, in senso quasi letterale. Si trattava di una evidente violazione degli accordi. Si parlo di una crociata fuori tempo.Era in corso la conferenza di pace di Parigi e i rappresentanti del presidente americano Woodrow Wilson protestarono con veemenza. I nostri diplomatici erano in imbarazzo e non sapevano che atteggiamento tenere. “Che dir loro?” chiese via telegrafo il ministro degli Esteri Sidney Sonnino a Sforza. “Nulla”, fu la  frisposta,“Sorridere e lasciar dire”. Questo atteggiamento da finti tonti si rivelò vincente, e alla fine lo stesso Carlo Sforza si insediò in via ufficiale nel Palazzo di Venezia il 27 marzo del 1919. Non fu come vincere una crociata, ma i risultati furono più concreti e duraturi: quell’edificio a Istanbul è tutt’ora di proprietà dello Stato italiano.Per i Savoia e per l’Italia la faccenda si rivelò una crociatina vittoriosa nel 1918 al posto della crociata abortita nel 1876: la storia e la politica internazionale sanno avere anche il senso dell’umorismo. Poi la Questione d’Oriente ebbe i suoi tempi supplementari. I greci tentarono in modo velleitario di far rinascere l’Impero bizantino a spese dei turchi. All’inizio ebbero l’appoggio dei vincitori della Grande guerra, e conquistarono vasti territori in Anatolia, ma non furono in grado di conservarli. Inglesi, francesi e italiani si resero conto di pagare un alto prezzo politico per il fatto di tenere il sultano ostaggio a Costantinopoli: nei loro imperi coloniali vivevano vaste popolazioni musulmane sunnite, che vedevano nel sultano e califfo la massima autorità religiosa ed erano offese da questa situazione.In India il mahatma Gandhi costituì addirittura un raro fronte unitario fra gli indù e i musulmani per chiedere il ritiro delle truppe alleate da Costantinopoli e dalla Turchia tutta. Gli italiani e i francesi se ne andarono per primi, gli inglesi li seguirono dopo la sconfitta greca nel 1922.

Il 24 luglio 1923 il Trattato di Losanna restituì alla Turchia la piena sovranità, ridotta però al solo territorio nazionale e privata dell’antico impero. Un anno dopo, Atatürk fece un favore non solo a se stesso ma anche a inglesi, francesi e italiani abolendo il califfato e togliendo ai sunniti un punto di riferimento ideologico di identità e mobilitazione anti-occidentale. A parte il recente e tragico tentativo dell’Isis di resuscitare il califfato, nel 1974 i turchi hanno invaso un terzo di Cipro facendovi pulizia etnica della popolazione greca, una ferita aperta che è stata ereditata dall’Unione Europea con l’ingresso di Cipro nell’Ue. E oggi il premier turco Erdogan dice di voler ridiscutere, nel centesimo anniversario del 1923, l’intera struttura del Trattato di Losanna. Tutto potrebbe tornare in gioco. Ma il Palazzo di Venezia a Istanbul appartiene ancora all’Italia.