Dai social all’opinione pubblica, è odio verso i poveri

Foto di Steve Mushero su Unsplash

Insulti ai poveri, il ventaglio delle parole è ricco: miserabili, buoni a nulla, pezzenti, residui umani, feccia. Odiare i poveri è diventata una parte integrante della nostra società malata. E’ la paura dei poveri il nuovo, vero razzismo. Loro, i poveri, sono disprezzati e messi ai margini. Impossibile immaginare che la vita improvvisamente ravvisi il bisogno, sgretolando le certezze, finendo in strada o in stato di necessità. I reati d’odio colpiscono un senza dimora su due. La spiegazione è oggettivamente fastidiosa e difficile da accettarla. La verità va cercata nella società consumista a cui apparteniamo. Noi siamo quello che consumiamo, e misuriamo noi al pari delle cose che consumiamo: abiti, automobili, telefonino, vacanze, tenore di vita in genere; quando lo perdiamo non siamo più nessuno. Può accadere per ingordigia, perché spendiamo più di quanto potremmo, per disgrazia, perché perdiamo il lavoro o per qualsiasi altro evento della vita non voluto ed imprevisto. Chi diventa povero perde l’identità. Nella società del consumo, chi detiene il potere del capitalismo, ha bisogno dei poveri, perché più aumentano gli esclusi, più i gruppi di privilegio possono sentirsi forti, dei dèi. Non aiuta certo la politica a mitigare la forma d’odio, difatti, la strada dell’odio ai poveri è lunga e parte dagli anni Settanta, ma la strategia dell’insulto è stata usata in maniera diretta da quando è stato introdotto il Reddito di Cittadinanza. I beneficiari del sussidio che avessero rifiutato le offerte di lavoro – col governo Conte ne aveva prospettate tre, oggi quello della Meloni l’ha ridotto ad una – avrebbe perso il sussidio. Ma prima ancora, i beneficiari del Reddito di Cittadinanza, sono stati sottoposti a una cura preventiva fatta di insulti. C’è chi li definì “divanisti”. La logica è quella di accusare chi usufruire di misure di sostegno nate nell’ambito del welfare, di non avere voglia di lavorare o addirittura di essere un truffatore. E così è aumentato il livore e la mancanza di empatia. Non aiutano neppure i social network, dove l’aporofobia, vale a dire l’odio verso i poveri, si innalza. Bandito parlare sui social di povertà e forme di sostegno ai poveri, gli insulti e la rabbia più intima, non tardano ad arrivare. D’altra parte sui social è ammesso parlare di clima e diritti civili, quelli “bucano”, conquistano like e opinioni di sensibilizzazione, ma le difficoltà economiche no. Perché l’imperativo sulle piattaforme è essere o quantomeno apparire fighi e senza problemi. Aumentano i prezzi, aumenta la vita, le famiglie arrancano, faticano, se ne potrebbe parlare sui social, perché la causa diventi di tutti e arrivi a chi governa, proprio come quando si spalleggiano campagne o diritti civili e sociali, affinché si richiami l’attenzione. Benzina troppo cara, la sanità che si sbriciola in tutto il Paese, gli affitti troppo cari, gli stipendi troppo bassi, temi che interessano a milioni di persone, ma nessuno ne parla sui social. Non è cool. C’è uno stigma rispetto alla povertà, che è la criptonite sociale per eccellenza. La ricchezza è un top trend, la povertà per nulla. Mostrare, ostentare, vendere, lusso e bellezza, è l’imperativo di molte piattaforme. C’è chi mostra barche, il proprio licenziamento perché sopraffatto, ci sono i motivatori, le cene raffinate, i posti esclusivi, ma mai gli indebitati o le persone in difficoltà che sventolano i loro guai. L’invenzione della rete e dei social dopo, doveva rappresentare una rivoluzione, trasformandosi invece, in un palco per milioni di persone dove l’unico obiettivo da perseguire è: diventare un brand. “Na cafonata”, come direbbe De Sica. E no, non si tratta di evasione per i social, la verità è che chi sta bene e anche meglio di noi, diventa oggetto di ammirazione. Chi sta male ed è precipitato nella scala sociale, lo respingiamo; perché attenta alla nostra sicurezza e alla tranquillità del nostro quotidiano. Il male della società, si chiama dunque, aporofobia, odio verso i poveri. Bisognerebbe trovarne una cura, prima che il male paralizzi definitivamente noi e ciò che resta della nostra capacità di solidarizzare, una ricchezza rimasta alla nostra decaduta umanità.