Di male in peggio. In Israele, a un mese dall’attentato, la guerra diventa giorno dopo giorno più cruenta

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Diecimila (10.000!) morti in un mese sono di per sé un pugno nello stomaco per chiunque. Che di quella strage più di un terzo sia costituita da bambini, dovrebbe quanto meno indignare chi ne viene a conoscenza. L’ uso del condizionale è da ricondurre al fatto che, come se in quella carneficina non ci fosse nulla di esecrabile, dopo circa due millenni si sta ripetendo una strage degli innocenti paragonabile per cruenza solo a quella di biblica memoria. Essa fu narrata con toni terrorizzati, senz’altro più accorati di quelli utilizzati oggi per descrivere quanto sta accaudendo agli attuali piccoli martiri. A trenta giorni dall’attentato, con orrore si deve prendere atto che tanta violenza riversata sui minori sia una scelta precisa di chi dà gli ordini a entrambi gli schieramenti. A differenza di quanto fece Erode, che tra l’altro era stato fuorviato dai Magi, quanto sta accadendo oggi offre lo spunto per pensare che, da entrambe le parti in guerra, si miri a eliminare intere generazioni prossime venture. Peggio ancora, non si intravede in prospettiva nessun tipo di definizione di quell’ ecatombe. Certo è che essa ha fatto ritornare la parte del mondo che ne è teatro indietro nel tempo fino a farle raggiungere la convivenza che presiedette, forzata e feroce, l’umanità all’alba del suo cammino. L’ ipotesi appena formulata stride pesantemente se confrontata con quanto accade in Occidente, in particolare in Italia. La contrazione delle nascite sta generando in buona parte del Vecchio Continente una problematica di tipo opposto, il calo demografico. Tanto consistente da porre pesanti ipoteche su come si configurerà la società italiana di questo secolo. Fin d’ora è possibile ipotizzare che, contro ogni previsione, la forbice tra ricchezza e povertà, almeno per qualche anno, sembra essere destinata a allargarsi e non di poco. Oltre al problema di soddisfare i bisogni primari, il cibo innanzitutto, sta diventando sempre più impegnativo per la classe media tricolore far sì che i figli possano frequentare un percorso di studi superiori, per poter aspirare, alla loro conclusione, all’esercizio di professioni o di mestieri vaggheggiati fin da bambini. Uno dei marcatori dell’ evoluzione sociale di un paese democratico è l’accesso alla scuola pubblica senza alcuna distinzione di censo. Il cosiddetto diritto allo studio dovrebbe prevedere anche che le famiglie siano messe nelle condizioni di dare ai figli tutto quanto occorre perché si formino realmente, senza limitarsi a scaldare i banchi. Non quelli con le rotelle, acquistati e mai utilizzati ,quanto meno senza riflettere, dai preposti a gestire l’emergenza Covid. Insieme a altri soldi bruciati durante la pandemia, quelli impiegati in un incredibile esercizio di incapacità gestionale se non peggio, avrebbero contribuito, anche se una tantum, a dare un aiuto concreto al mondo della scuola e a quanti ne fanno parte. Come si dice nel villaggio, l’acqua del ruscello che è già passata non fa girare il mulino, quindi è meglio non rivangare. Può essere più interessante soffermarsi su un comportamento diligente che alcune aziende, sia pubbliche che private, da qualche tempo hanno iniziato a adottare.
Si riferisce alla pratica di distribuzione di parte degli utili ai dipendenti, seppure una tantum. Qui si va su un terreno minato. Nel periodo del cosiddetto boom economico, ultimi anni ’50 e buona parte degli anni ’60, era consuetudine delle aziende italiane ridistribuire parte degli utili ai dipendenti e ai loro familiari. Erano le cosiddette “gratifiche” in denaro ai capofamiglia e giocattoli e cose del genere ai figli, denominate “befane”, che erano corrisposte per lo più poco prima di Natale. La fine del Miracolo Economico contribuì sostanzialmente a mandare la consuetudine prima accennata in soffitta. Nè furono di minor portata le lotte operaie, che tra le altre contestazioni, portò sui tavoli delle trattative tra la parte datoriale e quella dei rappresentanti sindacali anche quella prassi. Essa, nsieme a altre, finì per essere accantonata, perché definita, come altre, dai vari segretari delle organizzazioni dei lavoratori, forme di “paternalismo” fuori luogo e fuori tempo. La democrazia deve tenere nel dovuto conto anche questo tipo di atteggiamenti, con l’aggiunta che il tempo riesce a far sedimentare i comportamenti di quel genere. Sembra, almeno fin’ ora, che la volontà di ridistribuire parte degli utili come contributo delle aziende ai propri dipendenti, definito sostegno in tempi di emergenza, sia stato accolto dal consenso generalizzato. Oltre a essere un aiuto concreto per chi ne beneficerà, queste decisioni aziendali danno l’idea che le stesse potrebbero essere assoggettate, anche in seguito, a forme di automatismi, difficilmente attuabili dalla Pubblica Amministrazione. L’ ipotesi consiste in forme di partecipazione agli utili da parte dei dipendenti quando per l’azienda ricorrano determinate condizioni. Va da sé che anche per l’azienda sia necessario prevedere un corrispettivo. Solo pour parler, potrebbe concretarsi in un’ agevolazione fiscale o un altro vantaggio di uguale portata. Sembrerà assurdo, ma sarebbe molto meglio augurarsi che le fantasie accennate siano destinate a rimanere tali. La spiegazione del perchè di tale pensiero non è difficile.La sua validità è da attribuire a una sola considerazione, quella che l’augurio è che, a breve, l’economia possa entrare in una fase di congiuntura positiva e quindi di rimettersi in piedi. Del resto è quanto il mercato, se non condizionato, ha permesso di fare da sempre. Non dimenticando di rivolgere ogni tanto il pensiero a Adam Smith e provare a trovar conforto rispolverando il suo pensiero liberale.