Conflitto in Israele, l’ incertezza è unico elemento attendibile fra tante ipotesi fantasiose

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in foto Benjamin Netanyahu

Mercoledì il presidente americano Biden, nel suo blitz di poche ore a Tel Aviv per incontrare Netanyahu, ha affermato che la soluzione del conflitto tra Israele e la Palestina si risolverà solo se si riuscirà a far sì che ognuna delle popolazioni in contrasto dalla notte dei tempi sia cittadina di un proprio stato. Sarà a causa dell’età, saranno stati gli animi particolarmente tesi, certo è che la prima risposta, anche se rimasta nelle loro menti, degli osservatori, è che sarebbe difficile sostenere il contrario di quella affermazione, anche perchè  è un’ ipotesi scontata non da oggi. Al momento il problema più immediato da risolvere con l’intervento degli altri stati e per essi l’ Onu, é come fermare al più presto quella carneficina che in dieci giorni è cresciuta enormemente. Oramai è arrivata a livelli fuori da ogni misura anche per la ferocia adoperata da chi la sta mettendo in atto. Cercare di capire quale delle due fazioni si sta comportando peggio è diventato un esercizio di scarso valore pratico, stante il fatto che il numero dei morti in entrambi gli schieramenti continua a salire vertiginosamente. Non è solo questo stato di fatto che tiene con il fiato sospeso la comunità internazionale. In quella parte del mondo, il Medioriente, la bandiera del pensare in sintonia con il tempo è stata fin’ora portata, sebbene con i limiti che il contesto impone, appunto da Israele. Soprattutto nel settore dell’ agroindustria, le novità più significative a livello internazionale provengono per la maggior parte dalle università e dagli istituti di ricerca di quel paese. Le menti pensanti di numerosi israeliti, operanti anche in centri di ricerca fuori dei confini patri, da mezzo secolo a questa parte hanno dato forma a prodotti dell’ingegno che hanno modificato sensibilmente il modo di produrre. In particolare sì è verificato per le pratiche agricole nei paesi dove sono state testate. Si pensi solo ai dissalatori, concepiti per ottenere acqua dolce da quella salata del mare al fine di usarla principalmente per irrigare territori desertici, rendendoli cosi irrigui tanto da poter essere coltivati. Il problema della scarsità di acqua e la conseguente necessità di disporne in quantità sufficiente per le attività domestiche e industriali, è presente in molti altri paesi, e quindi quella tecnologia è stata esportata dovunque fosse stato necessaria e possibile farlo. Altrettanto è successo per i liquami, soprattutto quelli prodotti dalle industrie. Sviluppando il risultato della ricerca di un gruppo di docenti dell’Università di Tel Aviv, che aveva riscontrato la permeabilità di alcune resine di origine vegetale, nella seconda metà del secolo scorso un’ azienda locale realizzò un sistema di filtraggio per gli scarti industriali non solidi, anche di consistenza fangosa. Per completezza di informazione, alla elaborazione di quell’idea collaborò anche l’ Università di Napoli. I vari test effettuati anche in altri paesi diedero risultati positivi, nel senso che, alla fine di quel processo, si potevano ottenere residui solidi utilizzabili come concimi in agricoltura e acque pulite adatte per le lavorazioni industriali. Buona parte dei rifiuti attualmente trattati nel mondo utilizza quella tecnologia, aggiornata di continuo. Anche buona parte degli antiparassitari in uso attualmente, quindi realizzati con criteri lontani chilometri da quelli che sono alla base della produzione del Ddt e del Napalm – più che tossici -, sono stati messi a punto in Israele. La battuta di arresto che la ricerca e la produzione stanno subendo nella Terra Promessa non sarà grave quanto l’eccidio che si sta perpetrando, ma lascerà un’ impronta profonda e oltremodo dannosa. È l’intera struttura sociale di quel paese che comincia a essere fiaccata. Il kibbutz, agglomerato umano che caratterizza l’organizzazione della società israelita, in dimensioni ridotte e solo per certi versi, con punti di contatto con il Maso Chiuso dell’Alto Adige e con la Corte della Lombardia, oltre che per il pericolo, sta soffrendo per l’ inattività forzata. Quelle comunità sono tutte aggregati umani produttivi, seppure di dimensioni diverse, che vivono in una comunione che li rende quasi autosufficienti e con diverse attrezzature da lavoro in comune. Modalità quest’ ultima che fu presa in considerazione dagli economisti agricoli italiani, quando prese forma la Seconda Riforma Agraria, al fine di mettere a disposizione dell’Opera Nazionale Combattenti e Reduci i latifondi smembrati. Le unità coltivabili risultanti furono assegnate ai reduci di guerra ma l’operazione non andò a buon fine: molte di quelle unitá di li a poco furono abbandonate. Dopo questo episodio, diverse ricerche condotte da organismi pubblici arrivarono alla conclusione che non era possibile definire una dimensione standard economicamente valida per tutta la penisola .Il risultato a cui giunsero le ricerche compiute negli anni ’60 nel mondo agricolo fu che il parco macchine agricole era di dimensioni, per ogni unità di terreno coltivabile, pari a tre volte quanto fosse effettivamente necessario. La legislazione delle agevolazioni per il settore primario non è mai stata sottoposta a revisione. Il kibbutz, invece, continua a essere un organizzazione funzionante comparsa l’altro secolo nell’ organizzazione della società palestinese. È un modello pressochè inesportabile, che però funziona bene la dove è in uso ora. Avanti così allora, che quel tipo di struttura possa costituire a lungo un esperimento sociale e economico funzionante. È adatto alla bisogna del popolo che da anni lo ha adottato con successo.
Vale anche in tal caso l’affermazione che squadra che vince non si cambia.