Banche, il resistibile attacco all’extraprofitto

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L’intervento a gamba tesa sulle banche da parte del governo è tra gli argomenti più trattati della settimana. E in effetti si tratta di una decisione che si presta a critiche ed elogi a seconda dei punti di vista, delle sensibilità culturali, dell’appartenenza partitica. In pratica l’esecutivo di Giorgia Meloni – pur con le molte riserve espresse da Forza Italia – ha deciso di tassare ciò che viene identificato come extraprofitto delle aziende di credito.
Il prelievo riguarda una parte del vantaggio (che si presume ingiusto) acquisito nello svolgimento dell’attività tipica di acquistare e vendere denaro. Con l’innalzamento dei tassi decisi dalla Banca centrale europea per combattere l’inflazione è aumentato il costo per chi s’indebita ma non è cresciuta la remunerazione per chi deposita. Le banche, cioè, comprano soldi a buon mercato e li rivendono a caro prezzo lucrando senza alcun merito.
Le reazioni che si sono avute fanno capire come il provvedimento non si possa leggere e comprendere con le lenti dell’economia. Per farlo, occorre inforcare quelle della politica nel cui recinto è maturata la convinzione che si tratti di una scelta buona e giusta. Da Robin Hood, è stato pure detto e scritto per dare il senso del gesto: colpire le banche ricche e cattive per premiare i poveri risparmiatori che poi sono anche inevitabilmente elettori.
E infatti, la reazione degli esperti – i banchieri, certo, ma soprattutto gli economisti – è stata negativa nel merito e ancor più nel metodo ritenuto un po’ troppo sbrigativo (ma l’eroe di Sherwood non va molto per il sottile) e offensivo delle regole del mercato che infatti si è subito vendicato facendo calare i valori di Borsa con perdite nettamente superiori ai presunti benefici. Insomma, per gli addetti ai lavori la manovra è stata quantomeno maldestra.
Diverso il giudizio raccolto nell’arena politica dove addirittura c’è stato il plauso dell’opposizione di sinistra che ha persino rosicato per non aver avuto la possibilità (o la temerarietà) d’intervenire allo stesso modo nei lunghi anni alla guida del Paese con buona pace di tutte le evidenti controindicazioni del caso. Mettere nel mirino le banche e spremerle a dovere è di per sé un gesto popolare anche se le conseguenze dovessero essere negative.
Dunque, una misura che rischia di provocare danni sul piano pratico (meno profitti per le banche uguale meno risorse per i prestiti) e su quello reputazionale (la discrezionalità di un intervento dirigistico toglie certezza all’andamento degli affari scoraggiando gli investitori nazionali ed esteri) si risolve in un successo di pubblico perché asseconda il sentimento di un’opinione pubblica alla ricerca di occasioni di riscatto per torti subiti.
Le intenzioni dichiarate dal governo sono infatti apprezzabili: alleggerire con il ricavato del prelievo il peso delle rate di mutuo il cui costo sta salendo e contribuire per quanto possibile al preannunciato taglio delle tasse. Due obiettivi altamente condivisibili il cui conseguimento non è però certo si possa ottenere per la strada individuata irta di ostacoli che a prima vista non sono stati scorti o debitamente considerati.
Per quanto tecnicamente avventata si possa considerare l’azione dell’esecutivo – e comunque il Parlamento potrà modificare il decreto appena approvato – resta il fatto che gli istituti di credito si siano davvero avvantaggiati dello scarto tra gli interessi che fanno pagare a chi chiede un prestito e quelli che riconoscono a chi deposita rimpinguando il conto economico con poco sforzo e minore fantasia. Confermando di meritare l’antipatia che li circonda.