Il singolare culto dell’ambasciatore degli Usa a Budapest

39

Un giorno, forse molto presto, gli storici dovranno fare il punto su questi nostri anni ‘20, sull’intersezione di guerre che li sta segnando: guerre vere e proprie in corso, guerre vere e proprie che si preparano, guerre di civiltà, guerre culturali. Quel giorno, qualunque sia la loro predisposizione, l’attenzione di quegli storici si concentrerà su un Paese e su un uomo. Il Paese  è l’Ungheria. L’uomo è — no, non il suo discusso primo ministro, o almeno non solo. L’uomo è David Pressman, 46 anni, avvocato newyorchese, gay, specialista in diritti umani. Da settembre è l’ambasciatore degli Stati Uniti a Budapest, dove si è trasferito con il marito e i due figli. Da quel momento, quest’uomo è diventato il catalizzatore di tutte le guerre che attraversano il nostro tempo, la persona che indirettamente o direttamente le vive e le combatte tutte insieme, ogni giorno.
È così vero, questo suo ruolo sproporzionato — rispetto alle sue funzioni formali, non alle sue forze — che ha dovuto cominciare a svolgerlo ancora prima di cominciare il suo incarico. In luglio, mentre era impegnato alle audizioni del Congresso per la conferma della sua nomina, un gommone è apparso sul Danubio davanti all’ambasciata Usa nella capitale magiara. Esponeva uno striscione nero, con un teschio, le ossa incrociate e un messaggio:
«Signor Pressman, non colonizzi l’Ungheria con il suo culto della morte».
Per culto della morte si intendevano: le sue battaglie per i diritti Lgbtq, la sua omosessualità, le sue idee politiche progressiste.
Questo messaggio di benvenuto è stato solo l’inizio. L’Ungheria orbaniana ha preso la nomina di Pressman come un attacco deliberato dell’amministrazione Biden, e da allora i media governativi hanno cominciato ad attaccare Pressman. Il potente portale PestiSracok ha definito la sua nomina «un’ovvia provocazione diplomatica», un talk show ultraorbaniano è arrivato a chiamarlo «signora ambasciatore». Dire media governativi, in Ungheria, vuol dire praticamente tutti i media, sicuramente tutti quelli che contano: Viktor Orbán ha fatto del controllo dell’apparato comunicativo il primo pilastro del suo potere, togliendo pubblicità statale ai media indipendenti fino a costringere i loro proprietari a venderli ad amici suoi. Il secondo pilastro è stato il controllo capillare del sistema giudiziario. Il terzo, la guerra culturale sistematica, il bombardamento ideologico sulle questioni di genere, l’omofobia di Stato. Il quarto, l’uso dell’appartenenza all’Unione europea a soli fini economici, distanziandosi sia dai suoi valori di base — il liberalismo, il rispetto di ogni identità — sia dal suo atlantismo, cui ha contrapposto la volontà ferrea di mantenere un rapporto amichevole con la Russia, anche dopo l’aggressione dell’Ucraina. Quattro questioni, quattro pilastri che fanno dell’Ungheria un sorvegliato speciale di Bruxelles. E di David Pressman un sorvegliato speciale a Budapest.
La vita dell’ambasciatore si svolge in teoria su due binari. Da una parte, le normali attività istituzionali, dall’altra gli impegni politici. Ma i due binari, da paralleli che erano, hanno finito per diventare un binario unico. Pressman ha davvero sfidato il canone culturale imperante in Ungheria anche perché non farlo avrebbe voluto dire, semplicemente, rinunciare alla sua vita. E l’ha fatto fin dall’inizio, come ricorda il sito Gay.it: appena arrivato, «si è presentato al cospetto di Katalin Éva Novák, presidente dell’Ungheria dal 10 marzo 2022,insieme alla sua bellissima famiglia arcobaleno. In un Paese segnato dall’omotransfobia governativa di Victor Orbán, fresco di riconferma elettorale,l’ambasciatore Usa ha chiaramente voluto inviare un segnale, un messaggio inattaccabile come risposta alla guerra culturale e sociale decisa dal premier dell’ultradestra ungherese, tanto stimato da Matteo Salvini e Giorgia Meloni. Pressman è arrivato a Budapest insieme a suo marito e ai due figli, condividendo l’evento sui social. “Penso che tutto ciò parli da sé”, ha precisato in un’intervista. “A volte il potere dell’esempio è l’arma più potente con cui possiamo comunicare valori e preoccupazioni condivisi”. “Gli Stati Uniti si impegneranno sempre a favore delle comunità più vulnerabili o emarginate, e qui in Ungheria alcune ce ne sono”».