I dossier di interesse pubblico da affrontare e l’emblematico precedente dell’Alfa Romeo

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In foto l'Ilva di Taranto

Come già è accaduto altre volte nel corso degli anni, alcuni dossier delle diverse situazioni di stallo, due per tutte, Alitalia-Ita e Ilva-Arcelor Mittal, sono ritornati in tutta fretta sulle scrivanie dei vari commissari o figure professionali dello stesso genere preposti a risolverle. Tanto perché costoro possano tentare di trovare una soluzione valida per una soluzione definitiva, seppure articolata in una pletora di compromessi. È successo che, come in ogni romanzo thriller che si rispetti, ogni volta che è stata annunciata come imminente la sistemazione di quei prototipi di come non si fa impresa, nel giro di poche ore veniva allo scoperto che quella piena annunciata con squilli di trombe e rullo di tamburi, altro non fosse che una tempesta in un bicchiere d’ acqua. Come succede per l’evoluzione del genere umano che, se subisce una qualsiasi battuta d’arresto, non resta nello status quo ante, ma regredisce, altrettanto quelle situazioni aziendali di cui si sta trattando. rimanendo ferme, bruciano soldi dei contribuenti. In più incagliano i mercati sui quali hanno sbocco direttamente e su quelli a essi collegati. Conseguenza ancora più grave, svanita la coltre di fumo e avendo venduto la pelle dell’orso prima di averlo abbattuto, devono riposizionarsi su un gradino più basso della scala delle realtà analoghe di quello dove erano immediatamente prima. Chi era in età della ragione a metà degli anni ’80, ricorderà il caso Alfa Romeo, emblematico di quanto appena accennato. Quello storico marchio automobilistico, che vide la luce all’inizio del secolo scorso, nei primi anni ’30, anche a causa della grande crisi del ’29, andò vicino al default. Quella stessa si trovò fortemente indebitata nei confronti del sistema bancario anche a causa del calo delle vendite. Essendo le automobili prodotte dalla stessa di gamma superiore secondo gli standard internazionali del tempo, l’affermazione delle stesse nelle prime gare automobilistiche aveva già allora iniziato a dar lustro al Paese. Il governo del tempo ritenne perciò opportuno che quell’azienda si aggiungesse alle altre che già facevano capo all’ Iri. Con alti e bassi dei risultati economici, sempre però rimanendo un fiore all’occhiello della produzione automobilistica italiana (all’ epoca non era ancora entrata in uso la definizione Made in Italy), l’avventura dello Stato su quattro ruote durò fino al 1986, quando si concluse con l’ acquisizione dell’intero pacchetto azionario da parte della Fiat, allora presieduta dall’Avvocato. Il cognome all’epoca si sarebbe potuto anche omettere perché, dappertutto, quando si pronunciava quella qualifica, si capiva che, quasi sempre, sottintendeva il presidente del più importante gruppo industriale privato italiano, Giovanni Agnelli. Prima dell’azienda torinese aveva manifestato interesse concreto a rilevare l’Alfa Romeo l’americana Ford, in quegli anni presieduta da Henry Ford jr. Il marchio italiano era stato oggetto di ammirazione già da parte di Henry Ford sr, il fondatore, che disse al presidente della casa automobilistica italiana che, se vedeva un’ automobile con quel marchio, si toglieva il cappello in segno di ammirazione. L’orgoglio patrio prevalse e l’Iri fece in modo che la proprietà di quell’azienda rimanesse in Italia. Ex post si dovette convenire, anche da parte di alcuni responsabili di alto livello dell’azienda torinese, che meglio sarebbe stato per tutti se la proprietà di quell’azienda fosse finita in mani di imprenditori d’oltre oceano. Tra gli altri motivi di tale pronunciamento c’ era, secondo le notizie di dominio pubblico, che l’offerta della casa americana era più allettante e di esecuzione meno complessa di quella home made. Ma tanto è stato e le soluzioni per Alitalia Ita è Ilva Arcelor Mittal rischiano di avere uguale sorte, con forte probabilità di rimanere solo in parte di proprietà italiana. Intanto il valore di quelle realtà va diminuendo a causa delle perdite precedenti ancora da sanare e la continua emorragia di risorse, finanziarie e non, a tutt’oggi in atto a causa di una gestione riconosciuta diffusamente priva di criteri di economicità. Sono diventate entrambe le realtà e non solo esse tra quelle che compongono l’arcipelago delle aziende pubbliche e partecipate, il pendant delle macchinette mangiasoldi, pur se ingrandite con il pantografo. Possono essere definite anche eurivore, per non far torto alle energivore, un altro neologismo che, per quanto non proprio gradevole, circola da quando è esplosa la crisi energetica. Tale secondo termine è riferito alle aziende che basano la loro produzione su un forte consumo di energia di vario genere: alcuni esempi sono gli altoforni, le vetrerie e altre ancora. Per porre termine allo stillicidio appena descritto, è indiscutibile la necessità di alienare, il più velocemente possibile, quei pozzi senza fondo. Sempreché non succeda qualcosa del genere narrato nell’episodio dell’asino al mercato di villica origine. La bestia in fabula mangiava a dismisura e pertanto il proprietario decise di venderlo. Secondo il pensiero di quest’ultimo, evidentemente sbagliato, quell’animale era molto forte. Per tale motivo lo stesso riteneva che il suo quadrupede valesse più degli altri esemplari presenti in quel mercato. Così l’animale non trovò acquirenti e il proprietario dovette contentarsi di barattarlo con con una dozzina di piatti. È sempre valido l’adagio di un tempo che vuole che, tirando a lungo una corda, si finisce per spezzarla, quindi renderla inservibile.