Domenico Cotugno, 200 anni dalla morte: in mostra all’Archivio di Stato di Napoli lettere e documenti

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Fino al 3 novembre sarà visitabile, nel Chiostro del Platano dell’Archivio di Stato di Napoli la mostra documentaria: “Domenico Cotugno – Quando nessuno poteva morire a Napoli senza il suo permesso” a cura di Candida Carrino, direttrice dell’Archivio di Stato e Marielva Torino, docente di archeoantropologia. Un tassello innovativo nell’ambito delle manifestazioni afferenti al Bicentenario della morte del grande clinico nato a Ruvo di Puglia nel 1736 e vissuto a Napoli dall’età di 17 anni, fino alla sua morte, nel 1822. I documenti raccolti ci fanno conoscere un Cotugno inedito, un uomo e studioso profondamente incardinato nella città e che raggiunse il ruolo di medico di fiducia della famiglia reale. Un ruolo che gli diede lustro – anche se già il popolo gli riconosceva veri miracoli laici nella guarigione di malati ‘impossibili’ – e pure qualche dispiacere economico. E’ stata, infatti, ritrovata in Archivio una sua missiva del 1802, indirizzata al principe ereditario Francesco, poi successivamente divenuto re, col nome di Francesco I, in cui sollecita il pagamento di 400 ducati, quale onorario per la cura della principessa consorte Maria Clementina, sua prima moglie e scomparsa nel 1801. Altrettanto perentoria è la sua richiesta di riconoscergli lo stipendio maturato dal giorno della morte del suo Maestro Francesco Serao, che sostituì in cattedra e non, come pareva fosse l’orientamento degli amministratori, da quello del perfezionamento burocratico della sua nomina. Alcune prove raccolte dalle curatrici retrodatano la cagionevolezza della sua salute, fino ad ora considerata di poco antecedente la data della sua morte. Già nel 1813, invece, per motivi di salute, fu lontano dalle aule universitarie per sei mesi. Subito dopo la sua morte, poi, la moglie di Cotugno, Ippolita Ruffo di Bagnara, fu bersaglio di cause ereditarie in sei gradi di giudizio, da parte dei due nipoti, figli del fratello germano Vincenzo, non paghi dell’eredità di Cotugno a loro assegnate per testamento, consistente nelle proprietà fondiarie pugliesi. Una fetta preponderante, però, era toccata alla vedova e gl’ingrati l’accusarono di circonvenzione d’incapace. Alla fine, secondo quanto risulta dagli archivi giudiziari conservati ed esposti in Mostra, in un tempo relativamente veloce per la nostra epoca, in sei anni le pretese furono respinte, ma la povera Ippolita, dipinta come “abominevole” nelle memorie processuali dell’accusa dei nipoti, non ebbe il tempo di godersi la vittoria, morendo nel 1830.