di Erika Basile
“Avevo 42 anni. Non permetterò mai a nessuno di dire che questa è l’età più bella della vita. Anche perché chi volete che lo dica”.
Sono passati quindici anni dalla prima edizione di Non avevo capito niente (2007), il primo dei sei romanzi di Diego De Silva in cui l’avvocato Vincenzo Malinconico ci porta a spasso nella sua vita sgangherata.
Le sue avventure sono diventate una serie tv diretta da Alessandro Angelini, che andrà in onda su Rai 1 da giovedì 20 ottobre, con otto episodi trasmessi in quattro serate. Nel cast, oltre a Massimiliano Gallo che interpreta il protagonista, sono presenti Lina Sastri, Teresa Saponangelo, Denise Capezza, Francesco Di Leva, Michele Placido, Giovanni Ludeno, Ana Caterina Morariu, Luca Gallone, Simone Gandolfo e Massimo Reale.
“Rendere in sceneggiatura Malinconico non è stato semplice, – afferma Diego De Silva – perché non è una macchietta, è uno che quando ti fa ridere costruisce un percorso intellettuale che tu devi in qualche modo condividere […]. Massimiliano Gallo è un attore perfetto in questo senso, perché ha una leggerezza e un’agilità innate nel passare da un registro all’altro”.
Ma chi è Vincenzo Malinconico? È un uomo sempre fuori posto, un precario intellettuale, che naviga a vista nel lavoro e negli affetti, un avvocato che perde spesso le sue cause e che, mentre conduce una vita “ordinariamente drammatica”, riesce a raccontarcela con profonda autoironia. Ha un’ex moglie, Nives, che lo ha lasciato e ha sposato un architetto, e due figli che gli sono molto legati, pur non considerandolo un punto di riferimento autorevole.
Si considera un uomo-outlet: “E gli outlet, in quanto rientrano nel campionario della stagione passata, vivono male il rapporto con l’attualità. Si sentono scaduti, scelti per ripiego. Se qualcuno ci vuole è perché siamo in saldo”. È per questo motivo che viene colto alla sprovvista quando “un pezzo di femmina” come Alessandra Persiano, una “donna-Prada”, l’avvocatessa più corteggiata del tribunale, s’innamora di lui. Nei suoi pensieri continua a chiamarla per nome e cognome, “AP”, perché “quelli della mia generazione – ricorda De Silva – sanno perfettamente che le donne bellissime sono un brand, come Giorgio Armani”.
In un flusso di coscienza continuo, Malinconico analizza, in corso d’opera, i suoi pensieri e le sue azioni, offrendoci un racconto umoristico che non segue una linea retta, ma piuttosto vaga attraverso un labirinto tortuoso, in cui trovano spazio più dubbi che certezze. “Sono pieno di strascichi, di fantasmi disoccupati che vengono spesso a trovarmi. Colpa della memoria, che congela e scongela in automatico rallentando la digestione della vita e ti fa sentire solissimo nei momenti più impensati”.
Ci invita ad accompagnarlo nei suoi viaggi mentali, costellati di digressioni continue e di bilanci, alla scoperta delle sue passioni musicali e letterarie, ma anche delle sue innumerevoli debolezze.
Malinconico è un avvocato lontano dagli stereotipi dell’uomo sicuro di sé e senza scrupoli a cui ci hanno abituati i legal drama americani. Al contrario, è molto più simile ai tanti che arrancano per arrivare a fine mese e che affollano le aule di giustizia italiane, diventando, così, esponente di un sempre più diffuso precariato che ha investito anche il mondo dell’avvocatura.
Le sue fragilità sono simili alle nostre e non è difficile riconoscersi nella sua buffa imperfezione. Sorridiamo con lui quando ci spiazza mettendoci di fronte alle nostre insicurezze. “È vero! È proprio così!”, ci viene da dire. Perché Malinconico parla con i suoi lettori, discute con loro spudoratamente, cercando di chiarirsi le idee, descrivendo quel che avviene nelle sue relazioni affettive e sentimentali. Mentre ci si perde nella sua anarchia narrativa, si ha la sensazione che cerchi costantemente il contatto visivo con il lettore, con cui crea una rapporto intimo, abbattendo continuamente una immaginaria “quarta parete”. Non si avverte più separazione e ci si sente confessori e complici, destinatari privilegiati di confidenze e riflessioni.
In questi anni, egli è cresciuto con noi, è invecchiato, si è ammalato ed è anche diventato nonno. Ha imparato ad esorcizzare il suo disagio di stare al mondo, osservando sé stesso e gli altri attraverso uno sguardo sempre più leggero e disincantato.
Malinconico appartiene a quella che Douglas Coupland ha definito Generazione X (1991), in cui rientrano donne e uomini nati tra il 1965 e il 1980.
È la generazione che, più di tutte, è stata travolta da trasformazioni profonde nel giro di pochi decenni, ha dovuto abituarsi a camminare sulle sabbie mobili di una società sempre più instabile e fluida, rifiuta ogni fatalismo e non accetta di sentirsi ingabbiata in convenzioni e modelli precostituiti. La generazione che ribolle, intrappolata in una via di mezzo, tra i millennials, rappresentanti del futuro, e i boomers, cresciuti durante il periodo della ricostruzione e del boom economico.
Sono donne e uomini che hanno assistito allo sgretolamento progressivo di ogni punto fermo, al venir meno di ideali e speranze, e che, dopo aver festeggiato la caduta del Muro di Berlino, hanno visto innalzarsi nuove barricate e contrapposizioni.
Vivono, perciò, nella consapevolezza di una perenne precarietà.
Tra la nebbia che avvolge il domani e la difficoltà di fare progetti, hanno imparato “a patteggiare con la felicità”, proprio come Vincenzo Malinconico, consapevoli che “non c’è gradualità nell’accadere delle cose. Le cose, quando capitano, capitano. E non è nemmeno che puoi accompagnarle, impedire che ruzzolino trascinandoti con loro. […] Non si possono controllare o gestire. Nemmeno capirle si può”.
L’unico modo per affrontare la mutevolezza della vita – sembra dirci il nostro avvocato “d’insuccesso” – è quella di coglierne il senso del ridicolo, riconoscendo che, in fondo, siamo una “generazione di disadattati sentimentali”, fatta “per la separazione più che per il matrimonio”. Non ci resta che accettare l’infelicità che ne deriva come condizione inevitabile, qualcosa che prima o poi tocca a tutti e la cui nobiltà consiste nel non essere quantificabile economicamente e neppure negoziabile.
Ce lo ripete Malinconico nell’ultimo (per ora) romanzo Sono felice, dove ho sbagliato?, domandandosi se la vita possa essere considerata un precedente giurisprudenziale.
Sa bene che cosa significhi soffrire per amore ed è per questo che accetta di rappresentare un gruppo di impantanati in legami sentimentali, incastrato nella palude di un continuo presente, che decide di avviare una class action e intraprendere una causa, per chiedere se l’infelicità amorosa possa essere risarcita, annettendola al campo del diritto privato. La verità è che è proprio la consapevolezza dell’impunità a consentirci di continuare ad avere relazioni: se fossimo passibili di condanna quando provochiamo la sofferenza di un’altra persona, probabilmente, saremmo talmente inibiti da non intraprendere più nessun genere di rapporto. A conti fatti, quindi, l’unico modo per sentirsi liberi è quello di accettare il rischio che ogni scelta comporta, affrontando le intemperanze del destino senza prendersi troppo sul serio e con una ricca dose di leggerezza, proprio come Vincenzo Malinconico. Avvalendosi, qualche volta, anche della facoltà di non rispondere.