Perché non servono gli innovatori “incrementali” / 1

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Nel Bazar delle Follie è lunga la coda di dati e punti di vista sullo stato di salute della produttività. Ultimo di fila è per ora un personaggio dal nome impegnativo: potere di mercato. Costui è oggi al centro dell’attenzione, indagato di partecipazione a ‘reati’ che vanno dalla caduta della quota del reddito nazionale appannaggio dei lavoratori – e, per converso, dell’ascesa irresistibile dei rendimenti dei capitalisti – al rallentamento secolare della crescita della produttività. Ancor prima dello scoppio delle bolle gemelle, finanziaria l’una e immobiliare l’altra, i paesi più industrialmente avanzati, concorrenti nel salto in alto della produttività, hanno dovuto sempre abbassare, dopo il decennio 1970-1980, l’asticella che ne misura la crescita media annua in termini di Pil per ora lavorata a prezzi costanti. Ultimo di fila, il potere di mercato si è vestito con i panni della Volkswagen. A seguito della manipolazione tecnologica che è anche servita a pompare gli emolumenti dei super manager, l’impresa automobilistica tedesca è sottoposta a vivisezione. C’è tuttavia un aspetto che resta poco esplorato, con l’eccezione dell’articolo che Wolfgang Munchau ha pubblicato sul Financial Times il 5 settembre 2015. L’editorialista mette in luce due punti tra loro complementari: il peso eccessivo dell’industria automobilistica sul valore aggiunto dell’economia tedesca e la scarsa mobilità orizzontale degli ingegneri impiegati in quell’industria. Scrive l’editorialista: “Gli ingegneri dell’auto non si riqualificherebbero mai per lavorare nel settore biotech, o – il cielo non voglia – nel settore dei servizi”. Ci sono nel quadro diagnostico del caso Volkswagen tutti gli elementi che trattiamo qui di seguito. A rendere nota la denuncia a carico del potere di mercato è intervenuto recentemente Martin Sandbu, titolare della rubrica del Financial Times Free Lunch. Accrescendo il loro potere di mercato, le imprese riducono la pressione della concorrenza cui vanno incontro. Di conseguenza, i profitti si gonfiano, i salari ristagnano e, pur con una corrente di innovazioni apparentemente forte, la produttività perde slancio. Questa è l’accusa che ha un risvolto: sulla mongolfiera dei profitti che sale tanto in alto si accomodano i super manager per attribuirsi super emolumenti. È così che la società vive il paradosso della povertà nell’abbondanza: a tanti va poco; a pochi va molto. Allora, non c’è di che meravigliarsi se oggi risuona il pensiero che l’economista inglese John Maynard Keynes affidò ai suoi Essays in Persuasion: “Stiamo mancando le nostre opportunità, non riuscendo a trovare sbocco al grande aumento delle nostre capacità produttive e della nostra energia produttiva. Quindi non dobbiamo agire ancora più cautamente rispetto al passato, ma essere più coraggiosi. Attività, audacia e imprenditorialità, sia individualmente che collettivamente, devono essere la cura.” C’è da chiedersi: quale imprenditorialità va promossa? Solo quella degli innovatori incrementali tesi a migliorare le prestazioni delle loro imprese al fine di rafforzarne il potere di mercato (come nel caso Volkswagen)? Oppure anche l’imprenditorialità degli innovatori rivoluzionari che cambiano le preferenze dei lavoratori e dei consumatori e ne trasformano i modelli di lavoro e di consumo?

piero.formica@gmail.com