“Il questionario shock” sui caregiver indigna e scomoda con le sue risposte 

Imbarazza. Indigna. Il questionario della vergogna, con domande oscene, risposte scomode, e punteggi da assegnare al carico assistenziale, emotivo, e alla disabilità vissuta dal proprio familiare che si assiste, che però dall’altro lato fa riflettere anche con le sue risposte scomode, è stato inviato ai caregiver che assistono un disabile gravissimo al fine di poter accedere ai fondi di assistenza della Regione Lazio, che dopo il manifestato disagio di molti e le polemiche sollevate, ha ritirato il questionario. L’obiettivo era quello di misurare il livello di stress e individuare misure di sostegno adeguate per le famiglie interessate, ma il questionario si è rivelato piuttosto uno schiaffo indelicato a quanti ogni giorno accudiscono e assistono un disabile. Le domande imbarazzano ed invadono la privacy. “Mi vergogno di lui?”, “Provo del risentimento nei suoi confronti?”, “Non mi sento a mio agio quando ho amici in casa?” Le risposte permettevano di oscillare tra il parecchio ed il molto. Il punteggio tre corrispondeva a parecchio e quattro a molto. Poca sensibilità in un argomento delicato che non può essere incasellato nel nome della solita burocrazia. La brutalità è nelle domande dirette, crude e nude, che suonano come un pugno in piena faccia, ma che nascondono realtà. La brutalità sta più di tutte nella pretesa di ridurre ormai tutto a un numero, ancor di più i sentimenti e lo stato d’animo. Il caregiver, di recente riconosciuto come tale, è il familiare o la persona più vicina che accudisce e assiste un disabile anche gravissimo, talvolta, rinunciando a gran parte della propria vita, o stravolgendola il più possibile per rispondere al bisogno umano e non solo dell’altra persona a cui tiene. E’ pensabile, quanto carico emotivo e quanta frustrazione possa provare, quanta solitudine istituzionale e assistenziale. E’ inutile barricarci dietro la solita retorica umana, ma i servizi assistenziali scarseggiano, i fondi sono pochi, e molti disabili restano eterni esclusi da cure e assistenza, che si ripercuote con un notevole carico sul caregiver, spesso provato e d’età avanzato.  A dimostrazione di ciò è proprio il questionario, smistato alle famiglie da alcuni comuni laziali dalla Regione Lazio per accedere a fondi d’assistenza. Il questionario aveva bisogno forse di più tatto, più delicatezza, seppur per dovere di cronaca va ricordato che fu ideato nel 1989 ribattezzato “caregiver burden inventory”, quale strumento scientifico, utilizzato come modalità di autovalutazione dello stress dei caregiver. Uno strumento che forse andrebbe adattato all’oggi, alla sensibilità, senza dover base le risposte su numeri, che finiscono per renderci degli algoritmi che camminano. Lo stress non è dovuto alla vergogna dell’essere caregiver ma alla mancanza d’ascolto delle istituzioni e dello Stato, che discrimina, taglia fondi all’assistenza ai disabili. Provate solo ad immaginare un caregiver alla ricerca di ore di assistenza, di servizi o ausili per il proprio familiare, quanti uffici, dipendenti deve incontrare, spesso senza una reale risposta, trovandosi ribalzato da un ufficio all’altro, da un modulo ad un altro da compilare, con tempi d’attesa infiniti e spesso con il rigetto della richiesta non per la mancanza di requisiti piuttosto per mancanza di fondi. Il caregiver non chiede nulla fuori dal comune, un po’ di co-assistenza, che darebbe anche un po’ di sollievo a se stesso, chiede dei diritti, che spesso non sono riconosciuti per mancanza di fondi, proprio per quelli così risicati si è pensati a questo questionario shock, senza un minimo di sensibilità. E’ pur vero che ha indignato, ha sollevato polemiche, ma ha anche smosso le risposte, che per qualcuno sono state scomode, ancor di più per le istituzioni. Qualche familiare, nonostante l’invasione della privacy e le domande dirette, ha ammesso anche sui social di provare dei pensieri del questionario ma di non aver avuto mai il coraggio di esprimerli, a causa della pressione sociale che vuole il caregiver non solo performanti, ma anche capaci di amore devoto ed eroico senza cedimenti. Infondo, c’è da ammetterlo, si è avuti la concezione che il caregiver fosse immortale, fino a quando non si è pensati anche al “dopo di noi”. Un tempo, un passo nel riconoscimento del ruolo del caregiver e del fardello che porta sulle spalle fu compiuto, bisognerebbe solo essere più delicati, ma anche trarne da quelle risposte l’essenza, il bisogno di supporto, il grido d’aiuto, potenziare l’assistenza, incrementare i fondi, creare servizi reali per i disabili. C’è poi una visione della società comune da cambiare, perché se queste domande con le loro risposte hanno suscitano scomodità, qualcosa significa. Ovvero, voler far passare l’assistenza come missione, sacrificio appagante, assistere quotidianamente una persona, vederla soffrire, logora, taglia il proprio tempo, talvolta incattivisce, crea frizione tra i familiari, fa sentire inadeguati, onnipotenti o impotenti, tra amore e risentimento. Per il caregiver non esiste benessere o il lusso di ammalarsi, specie per i genitori di bambini disabili, eppure se non sta bene il caregiver non ci sarà neppure benessere per il disabile. Non esiste la favola felice del disabile pio e tranquillo e del caregiver sereno e soddisfatto, esiste il tormento, il nervoso, esistono stati d’animo che vanno compresi, ben venga un questionario forse un po’ rivisto, ma che apra anche le menti di molti censori.