Da Fuorigrotta a Maradona. Per spiegare l’arte sui muri servono competenza e interpretazione

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in foto un murales di Zed1

Metti il muro bigio di un edificio senza particolare  attrattive  architettoniche; metti una modalità d’espressione artistica che ha la particolarità di nascere e manifestarsi nei luoghi pubblici; metti ancora la ferma volontà di agire per il bene di quell’ambiente urbano. Mescolare il tutto con energia ed ecco: i ben trecentosessanta metri quadri di muro perimetrale della scuola Sirio Italico a Napoli, sono stati trasformati in un opera d’arte imprimendo carattere ad un area urbana senza particolari attrattive. Salacadulamencicabula. Sembrerebbe una magia. La zucca che diventa cocchio, il ranocchio che diventa principe. Un pezzo di città, tra quelli insultati dalla speculazione edilizia, è stata bonificata da un artista con i suoi disegni e i suoi colori. Colori speciali, in grado di assorbire lo smog prodotto da 79 automobili. Non risolve il problema dell’inquinamento ma aiuta. Viva la tecnologia. Unlockthechange è stata infatti realizzata con le eco-pitture Airlite, una tecnologia che può eliminare l’inquinamento atmosferico. L’autore dell’opera è il famoso street artist Marco Burresi in arte Zed1, che ha già lasciato traccia del suo operato sulle pareti di edifici pubblici a Miami, Denver, San Francisco, Fortaleza in Brasile, Béja in Tunisia e Saint-Paul in Réunion. Non certo uno qualunque. Napoli non è nuova a queste forme d’arte che qualche volta hanno riempito le sale dei musei, anche se con risultati di minore effetto. Opere nate per strada che per vivere, trasmettere messaggi ed emozioni hanno bisogno della strada. Qualcuno ha provato a promuovere un giro turistico tra tutte le notevoli opere di street art disseminate in città. Bene, anzi molto bene, benissimo. Un modo per avvicinare i turisti non solo a punti disparati e sconosciuti della città, ma anche una promozione per un arte che ha cominciato a trovare in Italia apprezzamento e valore economico. Grazie al solito miracolo social, il tour è prenotabile on line. 130 euro. Sono previsti circa 20 minuti di osservazione per ogni opera per un totale di due ore e mezza. Una bazzecola, direbbero i diretti discendenti di Dante, Petrarca & co. Avere una guida che eviti il ramingo andare alla ricerca di ogni dipinto è un vantaggio notevole, avere qualcuno che riferisca il nome dell’autore dell’opera e qualche informazione, una specie di didascalia umana, utile ma non fondamentale. In fondo girare autonomamente alla ricerca di ciò che interessa è una delle ragioni di un viaggio. A meno che. Partecipare a un tour dovrebbe essere molto di più che un modo veloce per vedere quanto più sia possibile e nel minor tempo. Dovrebbe significare, per esempio, sapere che, dagli ultimi 18 anni in poi, non si tratta più di street art ma di urban art. Sottile ma importante differenza. Quando dipingere i muri degli edifici pubblici era un reato senza appello, gli artisti restavano più o meno anonimi, riconoscibili dal tratto, dai soggetti e dai colori. Lavoravano di notte per paura di essere fermati dalle forze dell’ordine. Nasceva la street art, che non era solo un dipingere per strada, ma era lanciare la propria personale visione di un problema, era l’urlo di una politica personale, condivisibile o meno, che l’artista non conosciuto aveva trovato il modo di raccontare al mondo. Una sorta di guerriglia artistica. 

Erano gli anni novanta, e fu presto chiaro a tutti gli amministratori quanto valido e attuale fosse il consiglio del sempre valido, per quanto antico, di Tancredi allo Zione: se vogliamo che tutto rimanga com’è. L’arte di strada fu degnata di sguardo benevolente e tollerata, fin quando fosse stata realizzata su muri senza valore artistico, storico o culturale. Anzi, ad alcuni artisti furono commissionate opere che esprimessero messaggi suggeriti dalla benevolente amministrazione. Con le commissioni morì la Street Art, lasciando il posto all’Urban Art. Niente di terribile, sui muri brutti è sempre meglio un bel decoro, ma le famose ragioni sociali, tanto care agli autori dei libri di storia dell’arte da metà novecento in poi, erano cambiate. L’originario strumento per riprendersi spazi sociali, luoghi organizzati verticalmente dal potere, la riappropriazione artistica, ma prima ancora politica nell’accezione più ampia del termine, di alcuni spazi cittadini si trasformarono in un megafono per messaggi carini,  politicamente corretti. La pietra tombale fu posta con il loro trasferimento nei musei, decontestualizzando le opere e mitigandone la forza comunicativa.
Il turista che svolgesse il tour dovrebbe ricevere questo genere d’ informazioni. Il nome dell’autore, di un opera, oppure l’origine dei graffi sul volto di Maradona o di un altro personaggio si rintracciano facilmente. Internet non è una chimera.  Il turista vuole di più. Vuole l’emozione, vuole sentirsi parte del mondo dell’autore, vuole sentire la sua protesta, vuole urlare con lui. Deve sapere se l’opera è spontanea o commissionata. Non c’è nulla di male nella commissione di un’opera d’arte. I musei e le chiese rigurgitano di opere su commissione. Non spiegare però all’osservatore se un’opera sia frutto di un impeto dell’artista o se sia stata realizzata per diffondere messaggi su temi popolari non spontanei, è fuorviante. Un normale esercizio di onestà intellettuale e di accurata informazione moltissimo potrebbe dare a quest’arte. Raccontare che il suo grande successo è anche frutto di un progressivo riavvicinamento all’arte figurativa, e  invitare il visitatore a porsi l’eterno quesito sulla priorità di nascita tra uovo e gallina, collegare alcune opere a qualche espressione dell’arte africana, e individuare, dello stesso artista, le differenze tra l’opera spontanea e quella commissionata, consentirebbe all’osservatore  di proiettarsi nelle emozioni e negli impeti dell’autore. E sarebbe un perfetto uso dell’interpretazione.