Giustizia, l’insostenibile leggerezza dell’accusa

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Nel giorno della ritrovata unità europea sullo stanziamento dei fondi previsti dal programma conosciuto come Next Generation Eu – 750 miliardi, 209 dei quali destinati all’Italia – due notizie dovrebbero far riflettere più di altre sulla capacità dell’Italia di sapere e poter realmente utilizzare risorse così drammaticamente necessarie a tirarci fuori dalla doppia crisi economica e sanitaria (con gravi implicazioni sociali) nella quale siamo caduti e non soltanto per effetto del Covid.
Si tratta delle assoluzioni con formula piena, dopo sette anni di calvario, dell’ex ministro Nunzia De Girolamo accusata nientedimeno che di associazione a delinquere, concussione e abuso di ufficio per una vicenda della sanità beneventana (il pubblico ministero aveva chiesto una condanna a 8 anni) e di Fabio Riva, sul banco degli imputati per bancarotta, rampollo della famiglia espropriata dell’acciaieria di Taranto per presunto disastro ambientale (che non c’è stato).
Il primo episodio riguarda la politica dal momento che la De Girolamo si è sentita in dovere di dimettersi dall’alto incarico (che stava svolgendo con onore) senza nemmeno essere formalmente indagata, per un senso di responsabilità oggi quasi sconosciuto. Il secondo attiene al mondo dell’economia e ha creato le condizioni per la lunga sofferenza dell’azienda siderurgica che da prima in Europa stava correndo il rischio di fallire e ora è nelle mani dello Stato attraverso Invitalia.
Entrambi gli episodi minano fortemente la credibilità del sistema Italia ritenuto a ragione il più inaffidabile nel campo dei Paesi cosiddetti avanzati o industrializzati perché basta un niente, a volte una denuncia anonima, per mettere in moto il meccanismo di una giustizia che risponde a tutto tranne che all’esigenza di arrivare alla verità in tempi ragionevoli evitando nel frattempo la gogna all’imputato di turno che finisce invece anzi tempo condannato con la complicità dei media.
Il processo si svolge nel tempo dilatato dell’indagine che i depositari dell’accusa, i procuratori della Repubblica, svolgono con l’ausilio dei fedelissimi esecutori della polizia giudiziaria – poliziotti, carabinieri, finanzieri – che per compiacere il loro principale finiscono per vedere il male anche dove non c’è evitando con cura (naturalmente le eccezioni esistono) di mettere in luce le circostanze favorevoli alla persona osservata che in quel frangente è impossibilitato a difendersi.
Come l’esperienza insegna, quando arriva il giudizio (se arriva) è sempre troppo tardi e i danni provocati dall’azione inquirente sono diventati irreparabili. In troppi casi, il castello che il pubblico ministero ha costruito seguendo la suggestione dei teoremi invece che il rigore del diritto si sgretola miseramente di fronte alla valutazione del giudice terzo. I diciannove processi intentati contro Antonio Bassolino e finiti tutti in cavalleria sono un ulteriore esempio del misfatto.
Quest’attività così pervasiva e mirata delle procure (l’obbligatorietà dell’azione penale è la foglia di fico che nasconde la piena arbitrarietà dei depositari dell’accusa) non è minimamente bilanciata dalla sanzione che dovrebbe seguire ad errori conclamati, leggerezze imperdonabili e capricciosi intestardimenti che invece sfociano quasi sempre in promozioni cosicché alla fine della corsa, quando la verità viene a galla, chi ha intentato il processo non risponde del suo operato.
Alla poca affidabilità del processo penale si sommano le lungaggini di quello civile con il risultato di scoraggiare l’impegno di chi avrebbe tutto da perdere nel mettersi al servizio della società e di respingere gli investimenti produttivi, in particolare quelli stranieri, che infatti si rivolgono altrove. Come suggerito di recente dalla Fondazione Tor Vergata presieduta da Luigi Paganetto, se davvero si vogliono attivare i fondi europei la prima riforma da realizzare è quella della giustizia.