Economia e politica, le lezioni di Keynes sul metodo

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In foto John Maynard Keynes

Il metodo è tutto. Soprattutto in circostanze confuse (e con esiti imprevedibili) come quelle che stiamo sperimentando in Italia, in Europa e nel mondo nel tentativo di contrastare gli effetti sanitari ed economici del morbo più globalizzato e spiazzante che si sia mai conosciuto.
Ed è a un buon metodo che occorre aggrapparsi se vogliamo davvero venir fuori dalle sabbie mobili nelle quali i governi e i ceti dirigenti di ogni ordine e grado sembrano sprofondare mentre con gesti goffi e mal coordinati cercano di venirne fuori vanificando anche gli sforzi più apprezzabili.
Come molti altri prima di noi ci faremo accompagnare nel ragionamento che ci accingiamo a svolgere dal pensiero di uno degli uomini che maggiore influenza hanno avuto nel corso del Novecento, le cui idee sono state richiamate prepotentemente alla ribalta proprio dall’esplosione della pandemia.
Quando i fatti cambiano io cambio le mie opinioni, diceva John Maynard Keynes indicando nella duttilità (da non confondere con flessibilità) l’abito mentale giusto per adattare a nuove condizioni o a nuovi obiettivi le azioni da svolgere nel rispetto di un principio generale di coerenza.
Per stabilire la rotta e definire il percorso da seguire occorre per prima cosa aver chiaro il punto di arrivo. Quale sia cioè il bene primario da difendere o da realizzare. Il resto verrà di conseguenza: le politiche da mettere in atto, gli strumenti da definire o da affinare, le risorse da mobilitare.
Una plastica dimostrazione di quanto sia efficace questa linea di comportamento l’ha data Mario Draghi quando da presidente della Bce decise di difendere a tutti i costi la costruzione europea inaugurando la stagione della liquidità a buon prezzo per banche e imprese attraverso il Quantitative Easing.
Da quel momento storico (era il 2012) non è stata più la Stabilità la stella polare cui riferirsi ma la Crescita la cui prolungata mancanza rischiava di compromettere l’intera impalcatura comunitaria. Invertendo i termini del Patto, mutavano di conseguenza i risultati da conseguire.
Una decisione dello stesso tipo l’ha presa in questi giorni il presidente della Fed, Jerome Powell, stabilendo che oggi per l’America è più importante incentivare l’occupazione che tenere bassa l’inflazione garantendo soldi a buon mercato per molti anni a venire qualunque cosa accada.
La più grande difficoltà, rifletteva Keynes, nasce non tanto dal persuadere la gente ad accettare le nuove idee ma dal persuaderla ad abbandonare le vecchie. Powell e Draghi, con i loro esempi pratici, stanno trasformando il sistema prendendo decisioni che un tempo sarebbero state impopolari.
Tutto questo serve per dire che anche in Italia sarebbe utile fissare una robusta scala di priorità e conformare ad essa le scelte politiche che servono a garantirne il rispetto. L’intero armamentario delle leggi e dei regolamenti dovrebbe tener conto del punto di approdo che si riterrà d’indicare.
Ora, noi abbiamo due grandi condizioni da rispettare se vogliamo attivare i fondi del cosiddetto Recovery Plan che sta prendendo forma a Bruxelles e che quota per noi circa 200 miliardi di euro: investimenti produttivi e riforme istituzionali che rendano possibile il miglior utilizzo della dotazione.
In pratica tutte le scelte che andremo a fare dovrebbero tener conto dei vincoli che abbiamo promesso di rispettare per assicurarci il consenso di quei Paesi, auto proclamatisi frugali, che non hanno molta fiducia nella nostra capacità di tener fede all’impegno di non sprecare risorse comuni.
Aderiscono a questa esigenza primaria l’agenda del governo e delle principali istituzioni nazionali? Alla domanda si dovrebbe rispondere prendendo in esame i provvedimenti sul tappeto e confrontandoli con quello che dovrà essere l’esito che la politica individua come indispensabile da conseguire.
A leggere i numeri resi disponibili dall’Inps relativi ai posti di lavoro persi o non realizzati nei primi mesi dell’anno (750mila) non sembra che l’apparato delle regole predisposto dall’esecutivo sia in grado di soddisfare le esigenze del Paese. Anzi, molte distorsioni accentuano le già grandi criticità.
Il lungo termine, ammoniva Keynes, è una guida fallace per gli effetti correnti: nel lungo termine saremo tutti morti. Non è una concessione allo sguardo corto del presentismo ma l’invito a non considerare il tempo una variabile indipendente. Per correggere gli errori occorre intervenire subito.