La crisi italiana? Viene da lontano e va lontano

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Dell’Italia, il belpaese con il Pil che per venti e più anni di filato cresceva del quattro e anche del cinque per cento ogni dodici mesi, ne resta solo un ricordo. Piacevole da raccontarsi, ma pur sempre un ricordo. A sostenerlo non è il “gufo” di turno (per utilizzare un appellativo molto in voga nel Governo Renzi), ma i dati elaborati dall’International Monetary Fund, la più prestigiosa organizzazione economica del pianeta, che già nell’aprile di un anno fa assegnava al nostro Paese (a parità di potere di acquisto) il decimo posto tra le grandi potenze economiche del pianeta. L’Italia perde terreno (e autorevolezza) e continuerà – c’è da giurarci – a scivolare verso il basso anche nei prossimi anni. Sì perché i responsabili del tracollo del nostro Paese, siano essi politici o “tecnici”, continuano tutti (o quasi) a restare al loro posto. Dando vita a un ricambio solo di facciata. O, per meglio capirci, quello che i comandanti dei bastimenti della Reale Marina del Regno delle due Sicilie avevano tramutato in un ordine: «Facite Ammuina». Sostanzialmente di questo avviso è anche Fabio D’Orlando, professore di Economia politica e Politica economica all’Università di Cassino, autore del volume “La lunga crisi. Perché l’Italia non ce la farà” (CentoAutori, pp. 168, Euro 15) da poco approdato in libreria. A differenza di altre economie del Vecchio continente – sostiene l’autore – il nostro Paese non è stato in grado di confrontarsi con il cosiddetto shock da euro, che ha colpito gli Stati periferici dell’Eurozona, i quali avevano già subito l’impatto generato dalla globalizzazione dei mercati. I Paesi più lungimiranti hanno fronteggiato il doppio trauma riducendo i salari, aumentando la produttività del lavoro e puntando a divenire quasi monopolisti su alcune produzioni di qualità e su alcune eccellenze. Mentre i meno lungimiranti non si sono resi conto – o non hanno voluto rendersi conto – di come il mondo fosse improvvisamente cambiato. Così, invece di puntare sull’incremento di produttività, sulla tecnologia e sulla formazione, hanno preferito ricorrere a un massiccio indebitamento pubblico (o privato) per difendere il tenore di vita dei cittadini attraverso una spesa improduttiva. Tra questi governi poco lungimiranti un posto preminente spetta all’Italia, che vantava il secondo settore manifatturiero dell’Eurozona e tassi di crescita della produttività, nel dopoguerra, elevatissimi. Siamo stati – spiega il professore – tra i primi a puntare con decisione sulla spesa pubblica finanziata in deficit per mantenere un benessere da poco acquisito. Coltivando l’illusione che la crescita continuasse da sola, senza bisogno di essere sostenuta. Così, quando la crisi è arrivata, c’è stato un brusco risveglio e si è cercato di correre ai ripari. Improvvisamente ci siamo accorti che il Paese non cresceva più, che la produttività stagnava, che i salari erano cresciuti troppo rispetto a quelli dei nostri concorrenti e rispetto alla produttività del lavoro, che eravamo specializzati proprio negli stessi settori merceologici nei quali erano specializzati i nostri nuovi e aggressivi concorrenti, che l’ingresso nella moneta unica ci aveva precluso lo strumento della svalutazione competitiva e fortemente limitato il ricorso alla spesa pubblica espansiva, che il debito stava andando fuori controllo e costituiva un nuovo limite alla spesa… Un osservatore disinteressato si sarebbe a questo punto reso conto che l’elenco dei problemi da fronteggiare era sterminato, e che la loro soluzione richiedeva due cose: investimenti massicci, tanto pubblici quanto privati, in settori cruciali come infrastrutture, formazione, tecnologia; e un mutamento radicale di mentalità, con la presa di coscienza che il tenore di vita, che sino a quel momento avevamo considerato come a noi dovuto, ora dovevamo conquistarcelo. Così non è stato. Ma cosa che spesso si dimentica, abbiamo imboccato una strada a senso unico, dalla quale non si può tornare indietro. Anche per questo motivo parlare di “Default” e uscita dall’Eurozona è fuori luogo, in quanto i costi economici, sociali e politici sarebbero elevatissimi per il Paese e i cittadini. In pratica, la cura potrebbe dimostrarsi assi peggiore del male. Ed allora meglio rassegnarsi. Anche se all’orizzonte non c’è una prospettiva di miseria, l’Italia non potrà tornare ad essere un Paese ricco. “Potremo avere qualche alto e qualche basso, in futuro. Ma – conclude D’Orlando – pian piano scenderemo”.