Decreto: si scrive Rilancio, si legge Ristoro

95
in foto Giuseppe Conte

Come tutti sanno il Consiglio dei ministri ha finalmente varato il decreto che doveva chiamarsi Aprile ma che per i ritardi accumulati è stato concepito in maggio con il nome pretenzioso di Rilancio. Lasciando da parte le facili battute fioccate sull’argomento resta il fatto che a molti osservatori è parso che la montagna abbia partorito il topolino.

Cinquantacinque miliardi – il valore di due robuste manovre finanziarie, è stato fatto notare – sono stati distribuiti un po’ alle imprese, un po’ ai professionisti e un po’ ai lavoratori con una logica di stampo assistenziale mirata a mettere una toppa ai vari buchi creati nel sistema economico dal flagello chiamato coronavirus.

Meglio di niente, verrebbe da dire. E in effetti ciascuna categoria può dire di aver ricevuto qualcosa e sventolare questo qualcosa come un trofeo di guerra per prendere coraggio. Ma sa perfettamente che la stoffa tessuta e usata come toppa non sarà mai buona per confezionare un vestito nuovo. Che è quello, invece, che più ci serve.

Ciò che manca al Decreto Rilancio sono insomma proprio le misure che servono a onorarne il nome. È vero: il mondo delle imprese e del lavoro è allo stremo e anche il minimo aiuto può servire a guadagnare fiato. Ma la realtà non si lascia imbrogliare dalle parole e meglio sarebbe stato riferirsi a un più veritiero e discreto Decreto Ristoro.

Intanto, per evitare di accendere false aspettative e poi perché se i nomi hanno un senso è meglio dare loro quello giusto se si vuole conquistare la fiducia dei destinatari. E la fiducia, in momenti cruciali come questi, è un ingrediente fondamentale per avvicinare governanti e governati soprattutto se si chiedono disciplina, pazienza e sacrifici.

Ci sarebbe voluto molto più coraggio. O forse era necessaria una maggiore coesione tra le forze della maggioranza. Fatto sta che l’unico provvedimento utile a rimettere in moto la macchina dell’economia è stato ignorato: il rilancio delle infrastrutture attraverso l’apertura di tutti i cantieri già finanziati e pronti a partire.

Uno studio dell’Ance, l’associazione dei costruttori collegata a Confindustria, dimostra che si metterebbero in moto investimenti pubblici per 62 miliardi (in attesa dei provato) con la creazione di quasi un milione di posti di lavoro. Lavoro produttivo, sano e dignitoso di tutt’altra qualità rispetto ai vari Redditi di povertà.

Se non si mette mano alla ricostruzione e al rafforzamento del sistema Paese in ogni suo aspetto, con un recupero di produttività che non può essere affidato al solo impegno della fabbrica, difficilmente potremo aspirare al rilancio di qualcosa di effimero che non sia una semplice promessa, un’illusione, un impulso velleitario.

Ma la cultura d’impresa, con tutto quello che consegue in termini di assetto istituzionale e burocratico, non è ancora penetrata nella sensibilità della politica e dell’opinione pubblica convinte, entrambe, che la ricchezza si formi da sola e che non occorra farla maturare con sagacia e fatica prima che possa essere distribuita.

Anzi, si vorrebbe che fosse garantito il benessere indipendentemente dalla capacità di produrre reddito, attività volgare e svolta in prevalenza da faccendieri per i quali non a caso si concepiscono leggi liberticide. Tutti vogliamo appuntarci sul petto la medaglia dei 100 metri ma piombiamo le scarpette dei nostri corridori.