Covid 19: i rischi tra le pieghe dei Decreti

753
In foto Ivo Allegro

Senza correttivi, il poderoso “salvagente” per le imprese potrebbe riservare sorprese rilevanti

di Ivo Allegro e Salvatore Rocco

L’emergenza economica connessa al Covid 19 ha richiesto il varo di misure eccezionali, con i due DL n. 17 (“Cura Italia”) e n. 23 (“Decreto Liquidità”), per dare liquidità alle imprese mediante l’intermediazione delle banche, supportate ora sia dalla Sace S.p.A. che dal Fondo Centrale di Garanzia, quali garanti. Nel delineare una rilevante moratoria e un deciso potenziamento degli strumenti di garanzia a supporto di un accesso ampio al credito, non si è, forse, tenuto in debito conto: (i) gli usi potenzialmente distorti di tale arsenale creditizio (come osservato anche dai Procuratori Francesco Greco e Giovanni Melillo); (ii) i rischi penali – oltre che civili – cui la banca, così come gli organi dell’impresa, possa esporsi laddove supporti con nuova finanza un’impresa, in stato più o meno accentuato di crisi anche connessa all’attuale situazione, rimandandone, senza tuttavia impedirne, il default. Focalizzando l’attenzione su questo aspetto, la “spada di Damocle” è rappresentata dalla revocatoria fallimentare, nonché dalle varie fattispecie penali-fallimentari di bancarotta, non essendo infrequenti i casi di coinvolgimento a titolo di concorso degli istituti di credito nei reati fallimentari dell’imprenditore: in particolare, nei reati di bancarotta fraudolenta preferenziale, di bancarotta semplice per “operazioni di grave imprudenza” o per “ritardata richiesta di fallimento”, sino ad arrivare all’ipotesi di bancarotta fraudolenta impropria “da operazioni dolose”. A ciò si aggiunga la possibilità per la banca di essere “vittima” di ipotesi di ricorso abusivo al credito oppure, viceversa, di concessione abusiva del credito.

Queste fattispecie sono tutt’altro che remote. Analizzando i bilanci chiusi al 31/12/2018 (ultimi disponibili), di 247.629 società di capitali significative (fatturato superiore a € 750.000) si evidenzia che solo 76.310 (31%) avevano una redditività operativa lorda superiore al 10% (che in condizioni normali consentirebbe di far fronte al nuovo indebitamente in soli 2,5 anni). Delle 169.285 meno redditizie ben 31.865 (quasi il 13%) evidenziano livelli di indebitamento già sopra il livello di guardia dato che sale a 38.781 (15,7%) considerando tutte le imprese del campione. Con il drastico calo del fatturato atteso per il 2020 e la connessa forte diminuzione di redditività, la crescita dell’indebitamento, anche pari al 25% del fatturato così come previsto dai DL, rischia di innescare una miscela esplosiva. Molte imprese, infatti, si potrebbero avere indicatori di solvibilità che sconsiglierebbero l’assunzione di nuovo debito, ma l’unica ricetta proposta oggi alle imprese per far fronte alla crisi è proprio questa. Basti pensare che un’impresa con un margine operativo lordo del 5% sul fatturato e un livello di indebitamento contenuto, pari a meno di 3 volte il suo margine, accedendo ad un debito pari al 25% del suo fatturato storico, ma forse in riduzione nel 2020, metterebbe subito in crisi la sua solvibilità prospettica, soprattutto per durate del debito di soli 72 mesi. In un contesto simile, il timore che i DL Cura Italia e Liquidità, così come concepiti e strutturati, espongano concretamente al rischio di commissione dei reati sopra richiamati non è una mera ipotesi suggestiva.

È noto, difatti, che integri il reato di bancarotta preferenziale anche la simulazione di titoli di prelazione, intesa, secondo la Cassazione, non soltanto come «costituzione fittizia di un titolo preferenziale», ma come qualsiasi operazione economica, pure voluta dalle parti, che abbia l’effetto di alterare l’ordine di soddisfazione dei creditori (in prossimità, dunque, dello stato d’insolvenza). Il caso “classico” è quello dell’«impresa in stato di decozione che consegua da una banca creditrice mutui fondiari garantiti da ipoteca immobiliare utilizzati per il ripianamento dei saldi negativi dei conti correnti intrattenuti con la stessa banca, così trasformandosi il credito vantato da quest’ultima verso l’impresa da chirografario in privilegiato e, quindi, costituendosi un titolo di prelazione in danno di ogni altro creditore». Attraverso una simile operazione – si badi, nient’affatto “simulata” ai sensi dell’art. 1414 c.c., bensì effettiva e “reale” – la banca ottiene “trasformato” un credito chirografario in «credito assistito da cause di prelazione con la costituzione effettiva di una garanzia».

A ben vedere, un effetto simile potrebbe derivare dal ricorso – coerente con il dettato dei DL nn. 17 e 23 – al Fondo di Garanzia per le PMI di cui all’art. 13 del DL Liquidità. Concessa nuova finanza senza alcuna garanzia al di fuori di quella prestata ex lege dal Fondo, «in caso di inadempimento del soggetto finanziato» – in sintesi, in caso di avvio di una qualsiasi procedura concorsuale – l’intermediario finanziario ben potrebbe fruire «della possibilità di escussione immediata (che è a prima richiesta, incondizionata ed irrevocabile) del soggetto pubblico», ottenendo la “copertura” statale fino al 90 o addirittura al 100% del valore del finanziamento erogato. In tal modo, si determinerebbe la surroga legale ex art. 1203 c.c. del Fondo nella posizione creditoria dell’istituto finanziatore nei confronti del debitore. Ebbene, ai sensi dell’art. 8-bis, comma 3, D. L. n. 3/2015, il credito – ormai vantato dal Fondo – risulterebbe assistito da privilegio di natura generale sebbene, in origine, fosse meramente chirografario, con effetti evidenti in termini di alterazione della par condicio creditorum. Attraverso un simile meccanismo, quindi, si avrebbe un’effettiva “trasformazione” di un credito chirografario in «credito assistito da cause di prelazione»Senza considerare, oltretutto, il caso in cui la nuova finanza, erogata con la garanzia del Fondo, sia usata per rientrare da precedenti esposizioni (magari senza garanzie) nei confronti della stessa banca.

Allo stesso modo, la concessione di finanziamenti corredati della predetta garanzia pubblica ad operatori economici con merito creditizio prospetticamente deteriorato dalla crisi innescata da Covid 19, potrebbe essere letta a posteriori come un’operazione gravemente imprudente, dettata dal solo fine di posticipare il default (bancarotta semplice ex art. 217, n. 3, l. fall.), oppure come un’operazione gravemente colposa che, avendo fornito una “boccata d’ossigeno” ad un’impresa prospetticamente decotta e avendone posticipato la richiesta di fallimento in proprio, abbia avuto l’unico effetto di aggravare l’entità del dissesto, con relativo danno per i – restanti – creditori, integrando così gli estremi della bancarotta semplice ex art. 217, n. 4, l. fall. Al di là di ipotesi più estreme, connotate da un certo grado di fraudolenza, il minimo comune denominatore è il rischio, per banca e impresa, di continuare a supportare con capitale di debito realtà imprenditoriali che, anche per effetto del significativo mutamento nello scenario di mercato, distruggano valore anziché crearne. Eppure, il DL Liquidità non prevede alcuna forma di “protezione” per gli istituti di credito e per le imprese che ricorrano al “salvagente” previsto dall’art. 13. Detto altrimenti, il supporto finanziario all’imprenditore “in difficoltà” anche solo prospettica (si ricordi che il principio contabile OIC 29 imporrebbe già per i bilanci 2019 l’opportuna considerazione degli impatti dell’attuale situazione, soprattutto su poste “problematiche” come il magazzino, le immobilizzazioni immateriali e alcune tipologie di crediti) sarà privo di rischio penale soltanto se caratterizzato da un elevato standard di ragionevolezza e serietà sul piano economico-finanziario, e dunque solo se preceduto da un’attenta valutazione della situazione specifica dell’impresa richiedente. In tal senso, è chiaro che, nell’attuale quadro normativo, due presupposti debbano essere alternativamente ben verificati: (a) il business risulti “sano” e la realtà imprenditoriale solida, sicché la fase di tensione economico-finanziaria appaia soltanto transitoria; (b) ancorché l’attività aziendale risulti scricchiolante, la richiesta di nuova finanza si fondi su di un serio, ponderato e credibile piano di “rilancio” industriale (nelle forme del piano “attestato” di risanamento ex art. 67 l. fall., del piano di concordato con continuità aziendale ex art. 186-bis l. fall. o della “relazione” alla base di un accordo di ristrutturazione dei debiti ex art. 182-bis l. fall.), la cui implementazione consenta – con ogni probabilità – di superare la situazione di crisi. In tale ultimo caso, a contenere il rischio penale potrebbe intervenire la “esenzione dai reati di bancarotta” prevista dall’art. 217-bis l. fall.

In questo scenario, che potrebbe concretizzarsi per un numero molto rilevante di casi già sulla base dei dati di bilancio 2018, se non si vogliono lasciare le imprese e gli intermediari finanziari in balia dei rischi sopra evidenziati, delle due l’una: o il legislatore prevede una “clausola di salvaguardia” che raccordi adeguatamente la disciplina emergenziale e le fattispecie penali fallimentari e societarie (evitando “manleve” semplicistiche il cui unico effetto sarebbe acuire l’azzardo morale), oppure l’accesso alla nuova finanza sarà tutt’altro che agevole, con il rischio che l’intervento dispiegato risulti oltremodo tardivo.