Dieta mediterranea per valorizzare i tesori archeologici

82

A chi appartiene la dieta mediterranea? A noi, rispondono convinte istituzioni, organizzazioni e popolazioni meridionali. No, a noi no, puntualizza Vito Teti, ordinario di Etologia presso l’Università della Calabria, con il suo ultimo libro Maledetto Sud (Einaudi). Ma come? Chilometri di carta stampata, ricette, comparsate in tv, programmi di approfondimento, partecipazione a dibattiti e convegni locali e internazionali, e adesso, di punto in bianco, abbiamo scherzato?

Non proprio. Ma il tarlo del dubbio comincia a insinuarsi. Qui al Sud, spiega Teti, in fatto di cibo si predica bene e si razzola male. Insomma, abbiamo contratto abitudini alimentari sbagliate – troppa carne, troppi grassi, troppi latticini, a sorpresa troppo poco pesce – che contrastano con i dettati di una vera e sana dieta mediterranea.

I motivi sono molti e possono essere rintracciati anche nella misera nera di gente che solo dal secondo dopoguerra in poi ha cominciato a conoscere un po’ di benessere. Grano, olio e vino erano alla portata di pochi e fortunati benestanti che potevano permetterselo. E anche oggi, insiste l’autore, non sembra che i ceti popolari, ancora la stragrande maggioranza degli abitanti del Mezzogiorno, siano campioni di accortezza quando si siedono a tavola o consumano in piedi pasti veloci. Anche da noi s’impone il cibo spazzatura. Più dannoso alla salute ma meno costoso.

E allora? Allora non bisogna fare di tutta l’erba un fascio e salvare il meglio che c’è per poterlo rilanciare con uno sforzo innovativo. Ci sta pensando, per esempio, un’associazione flegrea (l’area di Pozzuoli, vicino a Napoli) che ha registrato il marchio ArcheoCucina con qualche piccola soddisfazione al proprio attivo.

Mettendo insieme i canoni antichi della dieta mediterranea e i luoghi dove crescono i prodotti che la caratterizzano – due patrimoni dell’umanità secondo la classificazione dell’Unesco – è possibile ricreare sapori e sensazioni che vanno molto oltre la semplice somministrazione di cibo.

Il modello nasce in Campania ma può essere applicato ovunque nel Mezzogiorno dove i ricordi dell’antichità sono molti anche se non sempre ben tenuti. Il matrimonio tra archeologia e cucina potrebbe attirare nuovi estimatori e consigliare di mettere a sistema una ricchezza che esiste ma non è utilizzata a dovere come rimarca anche Federculture. Gli americani invidiano le nostre bellezze storiche, artistiche, naturali e non capiscono perché non le trasformiamo in reddito. Gli inglesi fanno soldi con la mostra su Pompei e noi stentiamo a tenere in esercizio l’originale che cade a pezzi nonostante i fondi disponibili per conservarlo. E’ ora di reagire.

Una prova della bontà del progetto si è avuta nei giorni scorsi a Washington dove a margine dell’annuale Gala della Niaf, potente e diffusa organizzazione di italo-americani, si è tenuto un convegno proprio su questo tema animato da accademici, nutrizionisti, scienziati e cuochi che da Napoli e con il patrocinio della Regione sono andati a saggiare l’accoglienza nel paese che più di ogni altro è alla ricerca di una nuova e più salubre dimensione alimentare.

Il successo è stato più grande delle attese. Il binomio cibo e archeologia, con la suggestione delle immagini delle terre di origine e il potente rimando al tempo dei Romani, ha fatto breccia nel cuore e nel portafoglio degli amici d’Oltreoceano. Qui, è sembrato cogliere nei loro occhi, si può fare anche del buon business.

Ecco, con questa rubrica s’intende gettare uno sguardo su aspetti del nostro Mezzogiorno meno celebrati dalle cronache nazionali o tentare di osservarli da nuove angolazioni. Non si pretende di colmare il vuoto d’informazione che viene dal Sud ma di contribuire a migliorare la comprensione di fenomeni e fermenti che meritano una più approfondita attenzione.