Complicata la vita del turista in città. La coppia non particolarmente giovane entra nel cortile di Palazzo Reale. Ha ammirato l’esterno del palazzo opera dell’arch. Domenico Fontana e poi rimaneggiata, le sue forme tardo rinascimentali con colonne e ornamenti classici in facciata, le nicchie con le statue dei re e finalmente è entrata nel cortile centrale, forma quadrata con portico al piano terra e loggia interna sui quattro lati al primo piano. Bello come il sole.
I due turisti si fermano e guardano con curiosità lo strano ammasso di materiale al centro del cortile. S’informano sull’esistenza di lavori in corso, non erano stati informati. Inceneriti dallo sguardo dell’interrogata hostess seguono il suo dito indicatore e scoprono così un cartello (non grande, non piccolo, non illuminato, non segnalato, ohibò) che svela il mistero: è un’istallazione artistica il cui nome è “Pozzo nel cielo”. È dell’artista giapponese Hidetoshi Nagasawa. Leggono dei quattro bracci appoggiati ai blocchi di marmo assimilati a vettori che segnano il campo d’azione, la sfida alla gravità della materia, l’equilibrio nello spazio. Acciderbolina che roba. Ripercorrono il perimetro del cortile con lo sguardo fisso sull’istallazione. È evidente lo sforzo di chi, non strutturato sul tema, cerca di aggrapparsi almeno ad un particolare, e deluso, infine, si allontana verso le magnificenze di uno scalone in marmo di cui almeno riesce a commentare la comodità dell’alzata dei gradini. Purtroppo è così. Aveva tutte le più artistiche intenzioni Hidetoshi Nagasawa, quando sosteneva che utilizzando l’ambiente antico per esporre le sue opere realizzava una vicendevole influenza che permetteva la nascita di una terza qualità che si aggiungeva alle due generatrici. Intenzioni artistiche. Non gestionali. La gestione di una mostra, di un museo, di un bene culturale è un’altra cosa. Il compito di far dialogare l’opera antica (il cortile del Palazzo Reale con i suoi porticati e l’ingresso allo scalone) con l’opera di un artista contemporaneo che riteneva perfetto per la propria espressione ‘ambiente antico, è un problema di gestione. Se è vero che l’osservatore nell’ammirare l’integrazione tra il bello antico ed il contemporaneo debba percepire la nascita di un bellofousion bisognerebbe dargliene la possibilità. Ed essa non può limitarsi ad un foglio su cui si enunciano i capisaldi per capire cosa è poggiato a terra in un magnifico cortile di un bellissimo palazzo abitazione dei reali dei tempi che furono. Me lo da un aiutino. Non c’è busta e nemmeno la telefonata a casa. Sarebbe magnifico se luci, proiezioni e musica producessero il vero sentimento di questa desiderata fusione, che per l’artista doveva avvenire nell’anima. Quindi doveva essere frutto d’emozione. Cercasi emozione da provare, vedere toccare. Difficile, a meno di studiare approfonditamente, trovare un nesso tra la modalità antica di trattare i materiali e quella di Nagasawa che studiava i materiali per poterli incastrare senza usare mezzi di fusione. Le temperature di saldatura e fusione sono diverse e con il tempo e le variazioni termiche si crepano e l’artista voleva evitare tutto questo. Rifletteva Nagasawa che per capire una cultura ce ne vuole sempre un’altra. Si era così accorto che la cultura italiana non sarebbe potuta nascere anche in un altro luogo. Udite, udite. Egli stesso dopo averla tanto studiata non riusciva a capire perché ma ne prendeva atto. Riteneva che cultura italiana fosse una cosa molto diversa dalla cultura giapponese e le confrontava. Considerava quali sono le loro parti più importanti, ne cercava i punti in comune. Senza questa attività che presupponeva grandi studio e conoscenza non era possibile arrivare a capire. Allora anche un enorme punto interrogativo proiettato sui muri, illuminato a terra o dove, avrebbe spronato il visitatore a capire un po’ di quel dialogo. Qualche foto a contorno e luci ad accensione mirata avrebbero parlato per l’artista e sarebbe stata emozione.