Senza interpretazione l’attrattività di una mostra rischia di fermarsi al titolo

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Quante città al mondo possono vantare di essere state l’oggetto prevalente di una scuola di pittura i cui artisti, nella scelta dei loro soggetti, si siano allontanati al massimo di qualche chilometro dal centro città? Napoli, solo ed esclusivamente Napoli.

Nella Cappella Palatina del Maschio Angioino ecco le magiche luci della sperimentazione en plein air del gruppo di pittori che si raccolse intorno a Pitloo, Gigante e Scedrin. La mostra è di importanza fondamentale per l’esportazione della cultura napoletana, oggi come allora. Quelle luci a volte rosate, a volte dorate colpirono i viaggiatori del Grand Tour e stimolarono successivamente la ricerca del confronto dal vero di quelle tonalità. Siti colti e rappresentati quando la luce, colorandosi di inaspettati riflessi, avviluppava tutto il paesaggio. Nessun frutto d’immaginazione, solo pittura e rigorosamente dal vero. Non è poco, non è più facile, anzi.

Lo stesso paesaggio ripreso ad orari diversi, da postazioni diverse. Dov’era l’artista mentre ritraeva quel posto? Il tramonto a Posillipo ha gli stessi colori di un calar del sole a Capodimonte? Controllare prego. Affascinante, stimolante. Ciao ciao al vedutismo europeo tardo settecentesco e largo agli antesignani del realismo. Se fosse permanente, questa mostra, sarebbe un biglietto da visita importante per la città, un approccio alla sua storia, utilissimo per vivere l’evoluzione dei costumi e dell’urbanistica di Napoli.

La luce racconta tanto di questa città, e le vibrazioni cromatiche delle opere in mostra sono un emozione che i visitatori potrebbero essere stimolati a verificare nella realtà. “ qui oggi c’è una strada…,qui invece c’è il palazzo della nonna…”.

La sala d’esposizione è di per sé mirabile: La Cappella Palatina all’interno del Maschio Angioino. Una sola navata ricoperta da una volta a capriate lignee, senza cappelle laterali, che termina con un abside. Quale luogo migliore per la costruzione di un esposizione? Il livello d’aspettativa sale. Immaginazione corri e va. Immaginazione, appunto, solo immaginazione.

L’allestimento si rivela tutto sin dall’ingresso. Demolito in un attimo il principio che prevede scenografie che possano suscitare curiosità o voglia di scoperta. Quadri appesi in linea sulle pareti create, uno via l’altro. Tutti con la stessa illuminazione, tutti con le stesse didascalie rigorosamente solo in italiano, ancor più rigorosamente scarne: autore, titolo, provenienza, data. L’asta dell’interesse suscitato continua a correre verso il basso. Il pubblico passa guarda e va. Visita finita.

Eppure. Avere a disposizione il modello dell’artista, il paesaggio napoletano o dei dintorni di Napoli, avrebbe potuto indurre nei visitatori non solo la curiosità della verifica personale dei luoghi, il confronto di quanto ritratto con l’attualità, ma ancora di più avrebbe dovuto sottolineare quanto espresso nel titolo scelto per la mostra: la luce. Come trasferire al pubblico che quella che stanno osservando non è una visione del vero ma pittura dal vero? Come fare in modo che il visitatore dedichi almeno un minuto ad opera divertendosi, incuriosendosi al punto di voler approfondire le tematiche che lo hanno interessato?

Tutto questo non c’è, non è spiegato e neanche aleggia quel tanto da suscitare il desiderio della scoperta. Il titolo dato alla mostra affascina, la visita purtroppo ancora no.