“L’ultimo sposatore” di Vincenza D’Esculapio, alla ricerca delle radici perdute

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di Fiorella Franchini

Il caso e il tempo si alleano per catturare nella propria illusione Dafne, protagonista del nuovo romanzo di Vincenza D’Esculapio, “L’ultimo sposatore”, edito da Homo Scrivens. La donna si ritrova, in un susseguirsi incalzante di vicende, a ricercare i pezzi del lontano passato della sua famiglia sul quale incombe un inquietante oblio. Torna nei luoghi della sua prima giovinezza, a Forio d’Ischia, e lentamente ricompone i tasselli di una storia antica appartenuta alle generazioni che l’hanno preceduta e che, tuttavia, fa parte di radici personali e profonde. L’autrice tesse un racconto emozionante fatto di località reali e di luoghi segreti, emozioni, speranze, pensieri. La dimensione dell’anima e del presente si fondono annullando inesistenti separazioni. La scrittura lucida e, al tempo stessa, ricca e armoniosa di Vincenza D’Esculapio, funge quasi da macchina del tempo. I ricordi riportano indietro, i sogni portano avanti. Dafne sente il trasalimento di un qualcosa che vorrebbe salire dal profondo, non sa cosa sia, avverte la resistenza, sente il rumore degli spazi intimi percorsi, ritrova scelte dolorose, lutti, abbandoni, amori, segreti. Lentamente recupera il senso di un’antica tradizione, quello dello sposatore che prendeva in moglie una ragazza “esposta” della Real casa dell’Annunziata di Napoli. Fin Trecento, in un foro praticato sulla parete esterna dell’ospedale, una ruota di legno e girevole, conosciuta come “rota dei gittatelli”, serviva ad accogliere i neonati abbandonati dai propri familiari. Alcuni di loro avevano un sacchettino al collo con dentro un santino, un rosario, una medaglietta o un bigliettino con annotati i veri dati anagrafici. Una volta all’interno della struttura venivano lavati e battezzati. Da quel momento in poi diventavano i cosiddetti “esposti”, da qui il cognome Esposito molto diffuso a Napoli, ed entravano a far parte dell’orfanotrofio. Dalla fine del Novecento ai giorni nostri la narrazione familiare si arricchisce di squarci cittadini che raccontano vite, Parigi, Napoli, Ischia, notizie storiche, vicende intriganti, vissuti quotidiani e folgorazioni di ciò che è stato. Riemergono da un passato intenso tutti quelli che hanno fatto parte del vissuto della protagonista: la vecchia Alba, memoria storica della famiglia, il paziente Carlo, Piergiorgio, Tano, Isa, l’appassionato Dimitri. Dafne, ognuno loro, noi stessi, siamo quella memoria, un insieme di forme incostanti e mucchi di specchi rotti, che come il mare, restituisce brandelli, rottami della nostra identità anche a distanza di anni. Un romanzo che incarna in una saga, non un tempo assoluto, ma tante personali misure del tempo che dipendono da dove ci troviamo e da come ci stiamo muovendo. Vincenza D’Esculapio ci conduce alla ricerca di momenti appesi al niente, apparentemente inafferrabili, che ricostruendo gli attimi trascorsi, consentono tra le pagine e dentro la nostra intimità, di trasformarci, di prendere possesso del presente e del futuro, di ciò che vogliamo essere. Radici perdute e ali ritrovate, per essere “a volte albero, a volte vento”.