Meno spese, servizi migliori: ecco come, con la Smart Spending

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Il settore pubblico italiano, con le sue prestazioni, è attualmente un freno allo sviluppo perché drena risorse ingenti e incide in negativo sulle performance dei processi economici pregiudicando la competitività e l’attrattività nazionale. Un paese coi conti del passato in disordine – scaricati sui figli – non può avere presente e si gioca il futuro – dei figli divenuti adulti. Se la Commissione Ue agisse fino in fondo come una burocrazia, e giudicasse i governi europei sulla base dei numeri nudi senza metterli in prospettiva, l’Italia sarebbe già finita nei guai, ancor più grossi di ora. E’ noto che la spesa pubblica italiana supera ormai gli 800 miliardi di euro e che oltre il 28% della spesa nazionale, ad esempio, finisce a pagare le pensioni di anzianità. Il fondamentale e necessario riequilibrio della dissestata finanza pubblica italiana non può che passare attraverso un serio e puntuale processo di revisione della spesa: lo sentiamo dire da anni ed i più intellettualmente onesti che prediligono lo studio dei numeri al populismo, tentano di spiegarlo ad ogni occasione, precisando che è anche una strada per tornare a rendere più efficiente e competitivo il Paese in cui viviamo. Il dibattito pubblico in Italia sulla spending review è da qualche anno animato dalla presenza dei “commissari ad hoc”, figure tecniche che gli ultimi governi hanno nominato per stilare piani di efficientamento e tagli di spesa, figli di una coerente revisione dei costi. L’ultima spending review curata dal commissario Carlo Cottarelli e – pare – acquisita dal governo è scesa da un potenziale impatto pari al 4 per cento degli 800 miliardi di spesa pubblica a un misero 1 per cento oppure, nella migliore delle ipotesi, 1,75 per cento. Senza contare che l’iniziale vincolo di non impiegare le risorse della spending per finanziare nuova spesa pubblica, è stato cancellato con il bonus 80 euro di Renzi. Diametralmente opposta all’approccio dei “tagli lineari”, la ormai nota “spending review” può effettivamente costituire una occasione per riconsiderare il capitolo della enorme ed inefficace spesa pubblica tricolore, contribuendo ad adottare soluzioni orientate al miglioramento dell’azione pubblica in un’ottica di equità e coesione sociale. A tale scopo, risulta esser particolarmente necessario porre attenzione sul tema della spesa degli enti territoriali. Si tratta di utilizzare la necessità e la opportunità di una profonda revisione di questa spesa pubblica per concorrere a stilare nuove strategie più efficaci di investimento dei soldi raccolti con le tasse e dai trasferimenti centrali non solo per ridurre l’ammontare della spesa locale ma anche per migliorarla e ri-orientarla allo scopo di rendere i territori più vivibili per chi ci vive e lavora ed anche più attraenti per potenziali investitori esterni. Ronald Wilson Reagan, 40º presidente degli Stati Uniti d’America, soleva dire: “Un contribuente è uno che lavora per lo stato, ma senza avere vinto un concorso pubblico.” Ivo Allegro svolge da oltre 20 anni attività di consulenza e ha una consolidata esperienza nella finanza d’impresa e nel partenariato pubblico-privato; conosce bene le tematiche della spesa pubblica. Roberto Formato è stato dirigente di organizzazioni pubbliche e private ed opera nello sviluppo territoriale; ha studiato tra l’altro alla Hertie School Governance di Berlino, una delle principali istituzioni europee nel settore della finanza pubblica. Sono gli autori del libro “Smart Spending” che affronta il tema della revisione intelligente della spesa. L’ultimo dei super-commissari, che potrebbe anche suonare come il titolo di un film western, è stato Cottarelli. Dopo aver seguito le vicende di Giarda e Bondi, anche l’esperienza di Cottarelli ci ha ricordato che non basta un commissario per fare la spending review e che la spesa continua sempre a crescere. Quali sono le due principali ragioni per cui è così difficile tagliare la spesa e cosa occorre fare, prima di tutto, per invertire la rotta e poi monitorare i risultati? Anzitutto bisogna chiarire che, in termini assoluti, e contrariamente a quanto spesso si pensa, la spesa pubblica cresce costantemente in tutte le economie avanzate. Tra il 1970 e il 2012, per esempio, è cresciuta in rapporto al PIL di oltre 18 punti percentuali in Francia, di una decina in Gran Bretagna e Stati Uniti, di oltre 16 punti in Italia. La sua crescita è dovuta essenzialmente all’invecchiamento della popolazione, che determina una pressione crescente, in tutti gli stati, sul sistema della pensioni e della sanità. Paradossalmente la presenza dello Stato è cresciuta anche nei paesi che hanno maggiormente liberalizzato l’economia, poiché – laddove questo è stato fatto bene – è stato necessario introdurre più strumenti di regolazione e controllo della concorrenza, dunque più Stato, anche se in forma diversa. Il punto dunque non è solo ridurre la spesa pubblica ma riequilibrare il suo mix così da preservare, non senza efficientarle, le funzioni più sensibili dal punto di vista sociale. E’ inoltre necessario preservare la quota degli investimenti “strategici”, per fare sì che la spesa non destinata ad obiettivi strettamente sociali possa avere un effetto moltiplicativo sul PIL. Un po’ quello che, concettualmente si ritrova, benché con previsioni grottescamente irrealizzabili, nel piano annunciato dal Commissario UE Juncker. E qui vengono le note dolenti. Il bilancio nazionale è difatti appesantito dalla spesa per interessi, risultato cumulato dei debiti contratti soprattutto a partire dagli anni ’80, che incidono per circa 90 miliardi di euro l’anno. L’abbattimento dei tassi dopo l’ingresso nell’euro, che pure è stato una grande opportunità, è andato quasi totalmente sprecato: anziché utilizzare i risparmi per realizzare investimenti utili alla crescita, li si sono destinati ad alimentare ulteriormente la spesa corrente. In gran parte destinata alla sanità ma in misura rilevante anche ad alimentare la “giungla” delle società partecipate, a livello locale ma non solo. Questo ci porta a considerare anche l’impatto che ha avuto la, per molti versi, sciagurata riforma costituzionale del 2001 e un po’ tutto il sistema del decentramento istituzionale, soprattutto perché non è stato accompagnato da una coerente e contemporanea riforma fiscale, con la responsabilizzazione dei livelli regionale e locale non solo nel senso della spesa ma anche sotto il profilo del prelievo. Queste dinamiche, di carattere maggiormente istituzionale, si accompagnano poi a importanti limiti di carattere gestionale e organizzativo del nostro settore pubblico. La lista delle carenze è piuttosto lunga: l’assenza della cultura della performance, con quello che questa comporta in termini di misurazione e valutazione dei risultati, l’incapacità o non volontà ad operare per priorità strategiche, l’inesistenza o quasi di analisi costi/benefici degli investimenti, Tutto questo all’interno di una cultura amministrativa fortemente permeata dalla aprioristica difesa dei “diritti acquisiti” e dall’impossibilità sostanziale, stante anche la formazione prettamente giuridica dei nostri dirigenti pubblici, ad avviare un percorso di riforma veramente incisivo. La crisi finanziaria non ha fatto altro che accentuare questi aspetti. Sull’onda dell’emergenza, un po’ come davanti ad un nodo gordiano, si è deciso di tagliare, ma penalizzando quasi esclusivamente la spese per investimenti, mentre quella corrente ha continuato inesorabilmente ad aumentare. Per invertire la rotta, a nostro avviso c’è bisogno di acquisire alcune importanti consapevolezze: a) che la spending review non attiene alla mera riduzione dei costi, ma alla revisione strategica delle priorità dello Stato; b) che, per il tipo delle forze che la alimentano, non può essere un esercizio “una tantum”, ma deve avere carattere permanente; c) che attiene più al tema della performance che a quello dei meri costi; d) che per risparmiare a volte bisogna investire; e) che le riforme nelle organizzazioni moderne, complesse e a cui si chiede di erogare servizi di qualità, non si fanno solo con le norme ma con le persone e con comportamenti organizzativi coerenti; f) che per gestire bene bisogna misurare e valutare; g) che al settore pubblico oggi più che attuare la tradizionale funzione amministrativa è richiesto di alimentare la competitività nazionale con investimenti di qualità e orientati anche al raggiungimento di obiettivi strategici. Quale organizzazione che eroga servizi, purtroppo, il nostro settore pubblico, dal punto di vista organizzativo, non possiede però quasi nessuno dei requisiti che sarebbero necessari allo scopo. La proposta di spending review avanzata dall’allora neo commissario Cottarelli, era di realizzare interventi per 32 miliardi di euro di risparmio. Siamo scesi poi a una cifra compresa tra gli 8 e i 14 miliardi di euro. Sempre che gli Enti locali facciano la loro parte. Ci dobbiamo aspettare che la facciano? E quali dinamiche possiamo immaginare di osservare nei prossimi anni?  Crediamo che le cifre sulla spending review siano complesse da calcolare finché non si assumono le consapevolezze di cui sopra e non si inizia a lavorare sulle reali priorità che le comunità hanno e a cosa vogliono rinunziare per perseguire queste priorità. Fin quando rimaniamo nel campo dei calcoli ragionieristici, sin quando non si scende nel micro e non si crea consapevolezza nei cittadini che il consenso basato sulla spesa pregiudica l’avvenire delle generazioni future, il possibile impatto della spending review rischia di essere un esercizio divinatorio. Non a caso Giarda parlava di cifre ben più consistenti … La nostra idea è che i paesi che ci hanno preceduto hanno dato molto risalto ad alcuni temi, quali la trasparenza, la misurabilità, la partecipazione, la performance, il cambiamento di cultura delle organizzazioni pubbliche anche attraverso la prevalenza della sostanza sulla forma. Tutto ciò è un fatto casuale o è un fattore necessario? Ad esempio che all’estero si moltiplichino esperienze di coinvolgimento attivo e trasparente di spending review partecipata, come Better Reykjavík o l’esperienza del Nottingham City Council, è solo un vezzo o ha anche un utilità pratica? Cottarelli aveva denunciato l’utilizzo preventivo di risparmi non ancora ottenuti per autorizzare nuove spese. Il riferimento era ai professori «quota 96», il cui pensionamento era stato finanziato (e dopo le proteste, definanziato) con i futuri tagli della spesa. Le scelte politiche son sempre il punto di caduta di ogni processo di revisione della spesa? Un esempio per tutti. L’Italia è stata probabilmente una delle prime economie avanzate a porsi il problema della revisione della spesa, con il libro bianco sulla spesa pubblica di Ferrari Aggradi nel 1971. A questo fece seguito l’ancora attualissimo Rapporto Giannini del 1979 in cui molti dei problemi ancora oggi dibattuti in tanti talk show erano analizzati in profondità: dalla regionalizzazione imperfetta che fa nascere la necessità di riassetto degli enti «infraregionali» (comuni e provincie) alla macchina amministrativa pubblica non adeguata a fornire i servizi necessari a supportare lo sviluppo di un’economia avanzata; dall’arretratezza delle tecniche di amministrazione alle immagini dei dipendenti pubblici come “fannulloni”, “inetti”, “tardigradi” e “cultori” di formalismi; dai problemi di produttività e di individuazione e misurazione delle performance alla difficoltà di attuazione amministrativa delle leggi. Ciò premesso, il primato della politica nel nostro paese è un fattore forse sopravvalutato dai cittadini o meglio alimentato dai gap di cittadinanza attiva. Non a caso nelle aree del paese dove la partecipazione civile è tradizionalmente meno forte, dove il rapporto tra cittadini e pubblico è più di sudditanza verso il potere e meno protesa ad una richiesta di accountability dell’azione pubblica, come nel Mezzogiorno, le prestazioni del settore pubblico sono più scadenti, ancorché il problema sia assolutamente trasversale a tutto il paese. Un altro elemento di distorsione è collegato all’acritico primato che viene assegnato, spesso ideologicamente, al pubblico espressione “alta e pura” dell’interesse collettivo che abilità molti comportamenti opportunistici anche perché il consenso è spesso collegato al favore e non alla performance. Non è un caso che per reazione, in modo altrettanto ideologico e altrettanto sbagliato, alcuni attribuiscono al privato un’efficienza aprioristicamente superiore. Esiste, dunque, nella nostra visione un nodo che va indifferibilmente spezzato, come già rilevato nella metà degli anni ’90 da uno dei principali economisti italiani di impostazione keynesiana, Augusto Graziani, il quale osservava come l’inefficienza del settore pubblico non sia innata ma sostanzialmente dipenda, con correlazione diretta, dalla debolezza dei destinatari dei suoi servizi, che si sono “assuefatti” a un basso livello di prestazioni. Poiché i cittadini, per primi, si aspettano un basso livello di qualità delle prestazioni dalla P.A. (sia in senso stretto che in termini allargati, vista la proliferazione che nell’economia italiana hanno storicamente avutole società controllate dal settore pubblico e/o da questo dipendenti), si è determinata, storicamente, una scarsa attenzione per l’analisi, la valutazione e la misurazione delle performance, facendo venire meno lo stimolo verso una maggiore produttività ed efficacia. In questo contesto di scarsa attenzione dei cittadini, reso più semplice dai tecnicismi esasperati e dalla carenza di strumenti di misurazione, è ovvio che chi detiene il “potere” e di volta in volta viene visto come il “messia salvifico” possa avere la tentazione di uscire dalla strada complessa della revisione della spesa ovvero di utilizzare i risultati di questa per tamponare eventuali falle. Parafrasando Alloisio e Gaber “un cittadino non dovrebbero temere il politico in sé ma il politico in me”. Sessant’anni di cattiva gestione della spesa hanno ingarbugliato la matassa oltre ogni limite e venirne a capo, per questo Governo e per quelli che verranno dopo, sarà sempre più difficile. In tal senso gli approfondimenti su come fare “Smart Spending” possono aiutare sia il cittadino-contribuente a monitorare che la classe politica ad operare scelte più efficaci? Il volume parte da una constatazione e da alcuni quesiti che ci siamo posti. La constatazione è che il settore pubblico italiano, con le sue prestazioni, è attualmente un freno allo sviluppo perché drena risorse ingenti e incide in negativo sulle performance dei processi economici pregiudicando la competitività e l’attrattività nazionale. I principali quesiti sono: a) non possiamo più permetterci lo stato sociale o non possiamo più permetterci questo stato sociale? b) L’austerità è solo figlia della stupidità o anche di problemi tanto noti da oltre 35 anni quanto irrisolti? c) La spending review è un sinonimo forbito dietro cui si cela un deciso arretramento del nostro welfare state o è un processo di medio-lungo termine che rappresenta una formidabile occasione per ripensare il nostro settore pubblico? Rispetto a questi presupposti di partenza abbiamo provato non solo ad analizzare i problemi, elemento catartico quanto potenzialmente poco utile al di fuori di un dibattito che ora rischia di diventare sterile, quanto a delineare metodi e strumenti che possono supportare un processo di revisione intelligente della spesa che vada oltre la mera dimensione dei tagli. In quest’ottica, la scelta di analizzare le principali esperienze estere ha una valenza pragmatica di delineare le leve utilizzate per gestire il processo, spesso anche con risultati controversi. L’altra scelta forte del libro è stata quella di concentrarsi sugli enti locali che, per un verso, sono il primo punto di contatto tra Stato e cittadini e, per l’altro, hanno vissuto una stagione di tagli consistente che si è riverberata su servizi e investimenti, aggiungendo, con il degrado urbano e sociale di molte nostre città, una dimensione anche fisica alla crisi. In tal senso, il libro ha l’ambizione di mettere a disposizione di politici, funzionari pubblici ma anche operatori economici che agiscono con il pubblico e cittadini, una cassetta degli attrezzi vasta e profonda per porre in essere un processo di revisione della spesa più intelligente di quello che abbiamo vissuto negli ultimi anni. Nelle ultime settimane la Commissione Europea ha stilato un rapporto sugli squilibri macroeconomici italiani, sottolineando «le significative incertezze» nella revisione della spesa e nelle privatizzazioni «in ritardo». In che modo rivedere la spesa non comporta una mera riduzione del livello di servizi? E quanto negativamente pesano i processi di spesa a livello locale, troppo spesso poco responsabili? Come detto, la revisione della spesa non deve necessariamente tradursi in una mera riduzione dei servizi. Al contrario, dal nostro punto di vista, costituisce una formidabile occasione per riorganizzare il funzionamento del sistema pubblico così da conservare o addirittura – e può sembrare strano dirlo – anche elevare la qualità e quantità dei servizi erogati, anche se attraverso “tecnologie e metodi organizzativi” del tutto nuovi. Per fare questo, del resto, il settore pubblico dispone già adesso di molte leve. Si pensi alla spesso ideologizzata questione dell’accorpamento dei servizi e delle funzioni comunali: è fin troppo evidente che dietro la falsa bandiera del campanilismo si nasconde quasi sempre la difesa delle rendite personali delle “famiglie” dei politici locali. Questi si guardano bene dal raccontare ai propri elettori che la fusione con il Comune vicino già oggi può consentire di accedere (per quindici anni) ad importanti incentivi economici, oppure che può consentire di superare i tanto vituperati vincoli del patto di stabilità. In realtà, già oggi, la nostra classe politica (e amministrativa) locale avrebbe dunque la possibilità di scegliere: continuare a perpetuarsi riducendo inesorabilmente i servizi offerti alla propria comunità, ovvero rinunciare alle proprie posizioni per conservare e rafforzare i servizi offerti alla propria comunità? Certo è difficile chiedere ai politici locali di tagliare il ramo su cui stanno seduti, tuttavia la revisione della spesa implica proprio questo: lungi dall’essere un sinonimo forbito dei tagli lineari, è la revisione delle scelte per indirizzare la spesa laddove è più opportuno per il benessere dei cittadini. Le esperienze più avanzate dimostrano, d’altronde, che il settore pubblico, in maniera trasparente, misurabile e anche con il coinvolgimento attivo dei cittadini o delle loro rappresentanze, può individuare le spese superflue, ridefinire le proprie priorità e ridisegnare in base a queste i propri processi e le proprie strutture organizzative. Può agire inoltre sul fronte della valorizzazione dei propri asset e delle entrate, coinvolgendo gli investimenti privati ma senza generare privatizzazione dei profitti e socializzazione delle perdite. Può utilizzare infine il progresso tecnologico per ridurre i propri costi sia in maniera tattica (ad esempio riducendo la carta o il consumo energetico) che strategica (ad esempio ripensando le città in logica “smart”). Sul tema degli squilibri locali, come accennato sopra, questi di fatto si legano tipicamente alla deresponsabilizzazione del livello politico e amministrativo locale. Oggi questo vive prevalentemente di trasferimenti dal centro ed è solo marginalmente tenuto a rendere conto di come effettua la spesa (per quanto questo si vada lentamente modificando a fronte della maggiore imposizione locale). I cittadini sono spesso “distratti”, non dispongono delle leve conoscitive e non hanno avuto modo, nel nostro contesto culturale, di sviluppare una sana coscienza partecipativa. Per questo, il c.d. “open government” e, più in generale, tutti gli strumenti che vanno nella direzione della trasparenza e del coinvolgimento dei cittadini rappresentano una costante imprescindibili di tutte le migliori esperienze di spending review, anche e soprattutto a livello locale. Sul tema della irresponsabilità e pericolosità della spesa locale, basti pensare che il default argentino è stato generato prevalentemente dalla finanza locale ed anche il rigore tedesco cela in parte una situazione non sempre brillante in molti länder e nelle c,d, “città stato” (come Berlino o Brema). “Smart spending” vuol significare che anche la dimensione locale assume una prospettiva strategica nel processo di revisione della spesa pubblica. Alle amministrazioni locali è richiesto di implementare strategie “intelligenti” di investimento non solo per ridurre la spesa ma per migliorarla. E qui veniamo all’altro bubbone storico: le società partecipate dal pubblico. Cottarelli ne aveva scoperte 2.671 con più consiglieri che personale. Come agire per tagliare in modo “smart” e veloce? In Italia purtroppo la fine della partecipazioni statali, ovvero la dismissione di molti gioielli di famiglia che doveva servire a ridurre il debito pubblico e ad aprire alcuni mercati alla concorrenza, ha segnato l’avvio della stagione delle “partecipazioni territoriali”. Che il fenomeno sia fuori controllo è testimoniato dalla circostanza che nessuno sa quante realmente siano. Persino la Corte dei Conti, che dal 2010 si è concentrata sul tema, è costretta a delle stime approssimative sia sul numero (oltre 7.000 tra dirette, di primo e secondo livello) che nel livello di indebitamento addizionale (oltre 39 miliardi di euro fuori dai conti pubblici). Non a caso, le disposizioni normative (in particolare quelle previsto dal decreto legge 174 del 2012, emanato dal Governo Monti), le quali imponevano un più stretto e trasparente controllo sulle partecipate non sono ancora andate a regime. La cosa peggiore è che, con un vezzo molto italiano, oggi nel vasto panorama delle “partecipazioni territoriali” affianco a società assolutamente decotte e che hanno prevalentemente delle finalità opportunistiche, spesso al limite dell’azzardo morale, si affiancano rare ma non isolate aree felici in cui il pubblico è riuscito a conciliare benessere sociale ed efficienza. Il rischio, ancora una volta, è che con una norma, probabilmente un decreto d’urgenza, si rischi di buttare via “il bambino con l’acqua sporca” come avvenne all’epoca della partecipazioni statali quando – persi nella dialettica dei “panettoni di stato” – si smantellarono pezzi efficienti e vitali del tessuto produttivo nazionale a vantaggio di multinazionali esteri o di imprenditori nazionali trasformatisi in monopolisti. Con l’aggravante che all’epoca si smantellarono anche i centri decisionali che avevano un ruolo trainante nell’economia del Mezzogiorno e nella sua evoluzione, contribuendo a rendere ancora oggi quest’area territoriale un’emergenza nazionale. Ogni anno l’Italia spende miliardi in progetti finanziati dai fondi strutturali eppure non abbiamo granchè idea dei loro effetti: nel periodo 2007-2012, ad esempio, sono stati finanziati circa 500.000 progetti di formazione, per una spesa di 7,5 miliardi ma nessuno o pochissimi sanno quali tipologie sono più opportune di altre. Sulla base delle esperienze maturate, cosa possiamo dire oggi? E quali meccanismi di incentivi e sanzioni dovrebbero esser previsti nella “cassetta degli attrezzi” dei decisori politici, visti anche i pareri della Corte Ue che considera l’Italia incapace di gestire i fondi europei? Il discorso sarebbe molto lungo e nel caso merita un approfondimento specifico. In tal senso, ci permettiamo di essere tranchant facendo due constatazioni, che si adattano bene al caso della Campania.. 1) La vicenda dei fondi europei è un lampante esempio di quello che significa in pratica la regionalizzazione imperfetta. Dopo 4 cicli di programmazione, tra vincoli esogeni (Patto di Stabilità) e diffusa incapacità amministrativa, il tema dell’efficacia della spesa (risultati ottenuti) è una pura utopia visto che siamo ancora solo concentrati sul tema dell’efficienza (quantità di fondi effettivamente spesi). È noto ad esempio che malgrado la rilevante rinunzia ai fondi nazionali, che sono stati reimpiegati nel Piano di Azione e Coesione, e l’utilizzo di molte delle “alchimie finanziarie” ammesse dai Regolamento UE, la Campania porterà come progetti “a cavallo” (ovvero progetti ammessi a finanziamento nel ciclo 2007-2013, ma “trascinati” per la spesa nel 2014-2020), una massa finanziaria pari ad oltre 2 miliardi di euro. Ritardi che non solo significano un fallimento della programmazione, ma che determinano anche gravi ripercussioni economiche (ha un impatto certamente diverso spendere un euro oggi oppure farlo tra sette anni…) 2) Nel libro è messo in risalto il modello del “Bidone della spazzatura” (garbage can) per spiegare l’azione pubblica, ovvero quel modello che postula che i processi decisionali del settore pubblico non seguano criteri razionali ma agiscono per lo più in maniera caotica, assumendo decisioni spesso casuali e, comunque, seguendo processi non lineari. Ebbene tale modello si attaglia piuttosto bene al processo decisionale che è alla base di molte delle scelte di investimento attuate con i fondi del FESR. Secondo il modello del “garbage can” il processo decisionale è fluido e solo apparentemente confuso, poiché le soluzioni non sono scelte in funzione dei problemi, ma sono la conseguenza di altre variabili e situazioni contingenti tra cui il “tempo”: spesso i decisori devono difatti scegliere sotto la pressione di circostanze esterne (un’emergenza) o entro tempi prefissati (una procedura, una scadenza di finanziamento). In tali circostanze si orientano necessariamente verso le soluzioni che sono già in campo; altre volte una soluzione può invece essere disponibile, ma essere giudicata inappropriata per le reazioni che può provocare, dunque si può decidere di non decidere, ovvero di rinviare la decisione. Per quanto apparentemente assurdo, l’evidenza empirica dimostra come il modello “garbage can”, applicato ai tempi, modi e tipologia degli investimenti dei Programmi Operativi FESR, costituisca la prassi operativa prevalente, con buona pace della programmazione strutturata e razionale sancita dalle norme nazionali ed europee.  


Antonluca Cuoco Salernitano, nato nel 1978, laureato nel 2003 in Economia Aziendale, cresciuto tra Etiopia, Svizzera e Regno Unito. Dal 1990 vive in Italia: è un “terrone 3.0”. Si occupa di marketing e comunicazione nel mondo dell’elettronica di consumo tra Italia e Spagna. Pensa che il declino del nostro paese si arresterà solo se cominceremo finalmente a premiare merito, concorrenza e legalità, al di là di inutili, quando non dannose, ideologie. È nel Direttivo di Italia Aperta, socio della Alleanza Liberaldemocratica e sostenitore dell’Istituto Bruno Leoni. Twitter @antonluca_cuoco