La vita nel post carcere. La difficoltà di ricostruire le reti della propria vita

Carlo, nome di fantasia, aveva meno di trent’anni quando è entrato in uno dei tanti penitenziari italiani, lasciando a casa una moglie malata di cancro e un bambino di diciotto mesi. Quando ne è uscito con una qualifica da cuoco ed una da panettiere, con dentro il mondo sommerso del carcere, si è ritrovato compagno di vita di una donna cambiata e segnata dalla malattia e dalle difficoltà, e padre di un ragazzino poco più che adolescente. Il carcere ha segnato Carlo quanto la sua famiglia. Li incontro in un colloquio di servizio sociale, sono spaesati e quasi spaventati dalla nuova vita da ridisegnare e ricostruire. Parlare del “dopo”, di quando il cancello si chiude dietro le spalle di un detenuto e si riacquista la tanto desiderata, sognata e sperata “libertà”, è un argomento complicato, dove risulta facile scoraggiarsi e perdersi fra tutti i problemi che si riscontrano nel fine pena, cioè in quella fase della vita di un detenuto che dovrebbe rappresentare invece la fine del “problema dei problemi”, la carcerazione. Il fine pena è la gioia per la fine di un incubo, ma può rappresentare anche l’inizio di un altro momento buio. I problemi che franano addosso ad una persona che esce dal carcere sono molti: la mancanza di affetti, le amicizie perse, i legami familiari da riconquistare e la difficile ricostruzione dei rapporti sociali; poi i problemi pratici, come la perdita della residenza, in molti, infatti, hanno dimora presso l’istituto di pena; alcuni ex detenuti hanno anche la difficoltà di trovare un luogo dove dormire. Ma anche la mancanza di un minimo di disponibilità economiche per le prime necessità e per gli spostamenti, a volte si lascia l’istituto di pena con un sacchetto, quelli neri che contengono i propri effetti personali. Si scontrano con la mancanza di un lavoro, anche le persone in affidamento ai servizi sociali con un discreto lavoro, si vedono messi “alle strette” da quelle cooperative che danno lavoro solo a detenuti e non anche ad “ex”. Difficile anche l’assistenza medica, che a volte viene a mancare, se la persona perde la residenza che aveva fuori dal carcere. Infine, la crisi d’identità, non solo per chi è senza rapporti affettivi, lo scontro non è solo con un ambiente fortemente critico per i suoi trascorsi, ma anche con se stessi: gli incubi notturni, la difficoltà a ritrovarsi in un ambiente che per quanto dovrebbe essere familiare e proprio, fatica a diventare il proprio ambiente. Il carcere segna, lascia dentro paure, difficoltà, ed una volta fuori è difficile lasciarsi tutto alle spalle e paradossalmente il carcere sembra per molti un luogo “sicuro” rispetto a tutte le insicurezze del dopo. La galera, quella che piega la roccia, è lo stare esposti alle domande, reggere l’urto del passato senza defilarsi: “non potevi pensarci prima”, gli sguardi della gente, le loro attenzioni, i rimpianti: una galera personale che tortura dentro. Situazioni e mancanze che incidono in modo indelebile sulla psiche dell’ex-detenuto. Carlo, mi racconta che quasi ha dimenticato cosa significhi amare, mostrare atteggiamenti affettuosi, e seppur si senta padre, oggi nella vita di suo figlio si sente un perfetto sconosciuto: un rimprovero sembra inascoltato, un abbraccio quasi impossibile: il carcere lo ha reso anaffettivo. Il solo sostegno emotivo e morale non basta a Carlo e alla sua famiglia, prima di tutto Carlo ha bisogno di ritrovare se stesso, superando gli incubi, i ricordi del carcere, le mancanze e le difficoltà, con un percorso di sostegno psicologico che nel tempo si integrerà al figlio, perché padre e figlio devono avere il tempo ed il modo di costruire un rapporto mai esistito e sarà possibile partendo dalle basi: accompagnarlo a scuola, una passeggiata in bici, un semplice abbraccio sul divano durante una serie televisiva. Un percorso non semplice, che certo incontrerà ostacoli e difficoltà, che si scontrerà con la diffidenza, ma è un percorso umano e familiare che serve a rinascere, perché il fine pena è un inizio di pene nuove, come nel gioco dell’oca, si torna indietro, si ricomincia, si riparte da zero. Ma serve un percorso parallelo fatto di una giustizia umana fatta di accompagnamento nel fine pena, gli sforzi umani e solidali delle tante associazioni- poche e con pochi mezzi- che supportano gli ex detenuti, aiutandoli a reinserirsi nella società, sono una goccia nel mare, anche perché il volontariato è spesso “sbilanciato” all’interno delle carceri molto più che sul territorio. L’accompagnamento deve confrontarsi anche con l’aspetto morale e materiale, sarebbe opportuno all’uscita del carcere fornire uno zainetto con i primi oggetti specie per le emergenze, utilissimo anche se un po’ deprimente, bisognerebbe intensificare i colloquio nei mesi che anticipano l’uscita, monitorare i bisogni e attrezzarsi sul territorio, per rendere più efficace il sostegno. Urge e potrebbe diventare un obiettivo futuro, uno sportello che si occupi attivamente delle persone che stanno per finire la loro pena. Una rete di sostegno forte che individui i bisogni di queste persone, dall’affiancamento ai primi autonomi passi fuori dal carcere: la ricerca di un alloggio, l’aiuto quando piombano addosso multe, divieti, cancellazioni di residenza e tutto quello che somiglia al “dopo carcere” dove sembra un percorso ad ostacoli e sembra più semplice sfracellarsi che superare le tante barriere che si incontrano.

Maria Rosaria Mandiello