Dal Museo Pecci di Prato nuovi studi su Leone e la poesia visiva del Novecento

194
La sottile ironia della vita, il tratto leggero che disegna la favola ritmica del tempo, sorrisi e pudori che si inseguono in una giostra di emozioni. La poesia visiva, in Italia e in Europa, è stata tutto questo. Filari, storie di parole che marciano compatte verso la metamorfosi dell’ arte. Delle sue connessioni, delle sue costellazioni, delle sue galassie si è parlato in questi giorni al Museo Pecci di Prato per una giornata di studi titolata “ Il gesto poetico “, nuove prospettive di ricerca sull’ arte verbovisuale, alla quale hanno partecipato, tra gli altri, Giorgio Zanchetti, Enrico Bugli, Giuseppe Scalera, Stefano Pezzato e Duccio Dogheria. Un’ occasione per raccogliere gli studi, le ricerche, le analisi degli studiosi di tutta Italia e per ascoltare, in collegamento diretto con la RoyalHollowayUniversity of London, i rapporti internazionali delle neoavanguardie italiane degli anni settanta. Tra le prospettive di ricerca sulle sperimentazioni artistiche  che nella seconda metà del Novecento hanno esplorato e superato i confini tra immagine, parola, oggetto e suono, la straordinaria esperienza del Sannio, il fervido dialogo tra Giuseppe Leone e Luciano Caruso, puntualmente ricordato tra le testimonianze più vive. Quella stagione di Buonalbergo produsse opere a quattro mani assolutamente fantastiche e sbalorditive, presenti oggi in importanti collezioni pubbliche e private. Fu Leone, con il suo linguaggio segnico, a riproporre, tra l’ altro, in quei lavori, la forza dell’antica scrittura beneventana. Per Luciano Caruso, nativo di Foglianise,  studioso della grafia dell’Alto Medioevo, fu un immergersi nel proprio passato.
Due artisti sanniti di spessore internazionale, un’esperienza magica e irripetibile, opere e immagini che danzano ancora attorno a noi per riflettere e meditare, lasciando, come si è sottolineato al Museo Pecci di Prato, un vero, straordinario messaggio di speranza.