La situazione siriana oggi

La Siria è la grande piattaforma girevole del Medio Oriente. Parafrasando il detto di Mackinder, il noto geopolitico britannico dell’inizio del XX secolo, “chi domina la Siria domina il Medio Oriente, chi domina il Medio Oriente controlla l’Europa e l’Africa”.
Ecco il senso profondo della “guerra tra le guerre”, come Israele ha definito, in una fase, le sue operazioni aeree in Siria.
Gerusalemme non vuole soprattutto che l’Iran sia egemonico in Siria.
E, per questo, tende in primo luogo a raggiungere un chiaro equilibrio con la Federazione Russa, che non lascerà, certamente, Damasco totalmente in mano a Teheran.
Infatti, nel novembre 2018 sono iniziati nuovi bombardamenti israeliani dei centri direzionali iraniani, come a Kiswah, vicino Damasco, o a Harfa, una forte postazione di Hezb’ollah vicino alle Alture del Golan.
Sempre sullo scacchiere siriano, le forze di Bashar el Assad stanno pressando le postazioni jihadiste nell’area di Idlib, oltre alle città di Lahaya e Masasnah nella provincia settentrionale di Hama.
I gruppi anti-Bashar, ovvero l’Esercito Libero Siriano, Tahrir al Sham, che è la porzione siriana di Al Qa’eda, inoltre Jaish al Izza, un gruppo jihadista legato all’Esercito Libero, con armamenti forniti dagli Usa ma che opera soprattutto nelle aree vicine ad Hama, hanno sostenuto molto bene l’attacco delle forze sciite e tengono ancora buona parte di Idlib.
Idlib è, infatti, la più importante città corridoio per la de-escalation, così come è stato stabilito dagli accordi di Astana, ma è anche il centro in cui la Siria si collega alla Turchia e, quindi, alle linee primarie dirette verso l’Europa.
La Turchia ha, finora, preso il controllo del passo di Morek, sempre nell’area Nord della provincia di Hama, mentre Tahrir al Sham, che prima deteneva quella zona, si è riposizionata a Kafr Zeita, sempre nel settentrione dell’area di Hama.
Nella zona occidentale della provincia di Idlib, il gruppo che fa capo ad Al Qa’eda, Tahrir al Sham, ha trattato poi un “cessate il fuoco” con gli altri gruppi jihadisti, il che permette al gruppo, che è emanazione di Al Qa’eda, il mantenimento di sei villaggi nella pianura di Ghab.
Intanto, l’Esercito Arabo Siriano di Assad, con le forze di élite del 42° Corpo “Ghait” e la 4° Divisione Corazzata, si sposta dal Sud della Siria all’area settentrionale della provincia di Latakia.
Tutti i corpi combattenti siriani hanno inoltre potenti consiglieri russi, è bene ricordarlo.
I militanti iraqeni sciiti, comandati dalle Guardie della Rivoluzione iraniana, si sono spostati nell’area della provincia settentrionale di Hama, mentre il Quinto Corpo dell’esercito di Assad, sempre con il supporto russo, svolge azioni di rinforzo, tra il Nord di Aleppo e di Hama e l’area settentrionale di Latakia.
Sempre Hayat Tahrir al Sham, ovvero la “sezione” siriana di Al Qa’eda, ha distrutto tutti i ponti di Al Eys, sempre nell’area sud della provincia di Aleppo.
L’asse settentrionale Aleppo-Idlib è quindi il centro di gravità di questa guerra, mentre il sud sta diventando il cerchio di copertura delle aree settentrionali, che sono ormai determinanti per la soluzione della guerra siriana.
Il gruppo jihadista si è, comunque, posizionato oggi a lato della zona demilitarizzata di Idlib che è controllata da Russia, Turchia e Iran.
Intanto, alcuni gruppi, probabilmente legati al Daesh-Isis, che è stato tutt’altro che “eliminato”, come invece afferma la propaganda giornalistica occidentale, guerreggiano contro i gruppi legati ad Al Qa’eda, sempre nella regione di Idlib.
Ovvero, il baricentro della guerra. Operazioni attribuibili all’Isis sono state compiute anche ad Aleppo.
Intanto, i curdi dell’YPG combattono efficacemente i gruppi jihadisti che circondano la città curda di Afrin, che è peraltro, oggi, controllata dalle truppe turche.
I russi, intanto, hanno rimesso in funzione le loro batterie di difesa antimissile, nella provincia occidentale di Hama.
Che cosa vogliono, quindi, gli iraniani dalla Siria? In una fase iniziale, Teheran ha utilizzato il corridoio di Damasco quasi unicamente per trasferire armi verso il Libano.
Ma si oggi costruiscono armi direttamente in quel Paese, infatti attualmente Hezb’ollah dispone di circa 150.000 razzi, missili e proiettili da mortaio.
Che sono prodotti sia in Iran che in Siria.
Tutta la politica antisionista, sappiamo bene quanto feroce, dell’Iran attuale, si basa soprattutto sulla notevole capacità di attacco contro Israele di Hezb’ollah.
Un edificio ogni quattro, secondo l’intelligence israeliana, è una base militare del gruppo sciita, nel sud del Libano.
Nel 2017, però, l’aviazione israeliana inizia a colpire duro sulla linea terrestre delle armi, quella infatti che va da Teheran a Beirut.
La Siria diventa quindi, in effetti, un secondo Libano, con la costruzione oggi di una armata agli ordini di Teheran presente in loco, oltre al normale mantenimento delle linee di passaggio di armi dall’Iran al Libano meridionale.
Da questa trasformazione della logica operativa di Israele, deriva quindi un cambiamento di tattica di Teheran.
Sulla base dell’accordo siglato il 26 agosto scorso tra l’Iran e il regime di Assad, la repubblica islamica sciita, invece di operare solo in proprio sul territorio siriano, si fonderà quasi del tutto con le forze armate di Damasco, mentre le industrie belliche di Teheran saranno integrate con quelle del regime baathista.
E’ inoltre molto probabile che l’Iran voglia sostituire con i suoi gli uomini caduti dell’esercito di Assad.
Ma Teheran sta usando sempre di più anche l’Iraq, come area di stoccaggio dei missili, oltre a voler utilizzare, in futuro, anche le milizie sciite iraqene.
Rimane il fatto che l’Iran si staglia sempre più come vincitore regionale, nel conflitto siriano.
E la Russia non è certo contenta.
E la Federazione Russa, infatti? Dopo il rapido abbandono del teatro siriano da parte degli Usa, il che permette al regime di Assad di ergersi a unico protettore dei gruppi curdi della Rojava, Mosca sta elaborando una nuova strategia.
Insieme all’Iran ai siriani, i russi si stanno portando nella media valle dell’Eufrate, per poi passare quel fiume e impadronirsi delle aree prima occupate dalle forze Usa e dai suoi alleati siriani, ovvero l’Esercito Democratico Siriano, che combattevano soprattutto contro l’Isis-Daesh.
L’area suddetta è ricca di petrolio, ma la Russia e la Siria stanno cercando soprattutto di prepararsi all’offensiva dell’esercito turco verso Manbiji, una delle città-simbolo del movimento autonomista curdo.
L’Esercito Democratico Siriano, comunque, sta trattando con Assad e le forze russe, per concedere il passaggio sul terreno che ha conquistato precedentemente, visto appunto l’abbandono da parte degli Usa.
Peraltro, per assicurare la tenuta del confine tra Iraq e Siria, anche il regime di Baghdad sta collaborando fattivamente con la coalizione russo-iraniana.
Ma, sul piano economico, le cose non vanno del tutto bene per la coalizione siriano-iraniana e russa.
Le forze di Assad hanno comunque perduto il controllo, in otto anni di guerra, della maggior parte dei pozzi di petrolio siriani e delle aree di estrazione del gas naturale.
Sono cadute in mani nemiche anche le riserve di fosfati e le aree di produzione agricola.
La Siria ha riserve per 2 miliardi di barili di petrolio. E il regime di Bashar el Assad ha cessato la produzione di petrolio leggero nel 2012 e di quello pesante nel 2013.
Prima della guerra, la Siria produceva, in media, 385.000 barili al giorno.
Oggi le fonti ufficiali dichiarano che il regime di Assad estrae solo 20.000 barili/giorno.
Il regime di Damasco, nella sua azione contro i gruppi jihadisti, ha però recentemente ricatturato, una dopo l’altra, le più importanti aree petrolifere, ovvero lo Shaar, al-Hayl, Arak, Hayan, e infine la zona di Al-Mahr, nella regione di Palmira.
Intanto i curdi, già sostenuti dagli Usa, mantengono il controllo dei loro depositi di gas e petrolio nella Siria orientale e nordorientale.
Le aree controllate dai curdi, oggi in contatto con le forze di Assad, sono oggi il 30% del territorio siriano.
Le forze curde hanno catturato circa 1000 pozzi, alcuni dei quali sono in buone condizioni e possono facilmente entrare in produzione.
I pozzi curdi, controllati unicamente dalle forze della Rojava, bastano per il consumo di tutta la loro area; e forse il governo di Damasco comprava segretamente il petrolio dai curdi per poi rivenderlo a un prezzo maggiore, visto che il petrolio curdo era a un prezzo molto più basso di quello praticato dal mercato internazionale.
Per il gas naturale, il maggior pozzo è il vecchio Conoco, nella regione ad oriente di Deir Ezzour, che è ancora sotto il controllo delle SDF, Syrian Democratic Forces.
Uno dei vecchi assi della presenza Usa nel quadrante siriano.
Un pozzo che è passato dai 21milioni di metri cubici al giorno, prima del conflitto, agli 8,5 milioni, mentre il governo di Damasco assicura che, oggi, siamo arrivati ai 16,5 milioni/giorno.
Naturalmente, il costo del gas per i cittadini siriani si è moltiplicato per dieci, negli anni della guerra, che ancora oggi continua.
Per i fosfati, di cui la Siria era uno dei primi paesi esportatori, è molto probabile che le riserve siriane, oltre 2 miliardi di tonnellate, saranno preda di guerra sia della Russia che dell’Iran.
L’area di maggiore produzione è sempre quella di Palmira. Le Guardie Rivoluzionarie di Teheran presero il completo controllo dell’area nel 2015.
Nel 2017, Damasco ha inoltre firmato un accordo per i fosfati con la Russia, mettendo da parte l’Iran.
Ma solo Mosca, però, investe nelle aree di estrazione dei fosfati siriani.
Per l’olio d’oliva, la principale risorsa agricola siriana, Damasco era, prima del conflitto, il primo produttore arabo, con 100 milioni di olivi e 1,2 milioni di tonnellate di olio l’anno.
Con la guerra, la produzione è calata del 300%.
L’area di produzione olivicola era soprattutto la provincia di Idlib e quella di Aleppo.
Ma osserviamo ora il comportamento della Turchia. L’altro grande esercito operante in Siria.
L’Esercito di Ankara, il secondo per grandezza della NATO, che peraltro sembra stranamente disinteressarsi della guerra in Siria, ha compiuto soprattutto vaste e efficaci operazioni nel Nord siriano.
A parte alcune oscure operazioni, come quella di Tell Rifaat, dove i russi si sono arresi subito alle forze turche che circondavano il paese, sembra sempre più chiara l’alleanza, nascosta ma non troppo, tra Turchia e Federazione Russa.
Perché? Forse perché i russi vogliono evitare che Ankara si allinei troppo con gli Usa.
Poi, dopo l’abbattimento turco di un aereo-caccia russo nel 2015; e dopo le scuse ufficiali porte a Mosca dal presidente Erdogan, sembra che l’asse Ankara-Mosca-Teheran si stia solidificando, soprattutto per definire e controllare le “de-escalation zones”.
Le zone di de-escalation sono quattro: 1) la provincia di Idlib e l’area nord-orientale della provincia di Latakia, le aree occidentali della zona di Aleppo e quelle di Hama. E’ una zona da un milione di abitanti, già dominata da una alleanza tra gruppi jihadisti legata ad Al Qa’eda.
2) l’enclave di Rastan e Talbiseh nell’area Nord della provincia di Homs.
Con 180.000 abitanti, ma una vasta rete di gruppi jihadisti.
Poi anche 3) Ghouta Est nelle campagne a nord di Damasco. Con 690.000 abitanti, era anch’essa controllata da un gruppo jihadista che, però, partecipa anche alle trattative di Astana.
Infine, 4) le aree al confine con il Giordano che includono parti delle provincie di Deraa e di Quneitra. Con ben 800.000 abitanti.
Il trattato presuppone che, in queste zone, le forze governative e quelle jihadiste cessino le ostilità per sei mesi.
La Russia continuerà a controllare con gli aerei le zone, ma senza bombardare le postazioni nemiche.
Insomma, i turchi stanno con i russi, e Mosca ha ogni interesse ad avere Ankara come alleato-chiave in Siria, per spezzare la strategia mediorientale della NATO e per avere un forte esercito operante sul territorio di Assad, anche per diminuire il proprio oneroso impegno e, quindi, il costo della missione russa in Siria.

Giancarlo Elia Valori