Sileoni: Riforma della giustizia Meno arte forense, più senso pratico

624

Secondo la classifica “Doing Business 2013” della Banca Mondiale, l’Italia si colloca al 160° posto, sui 185 paesi analizzati, per la durata di una normale controversia di natura commerciale. Ci superano abbondantemente paesi come il Togo e il Gabon, mentre riusciamo a stento a battere l’Afghanistan. Il rapporto 2012 del Cepej, European Commission for the Efficiency of Justice del Consiglio d’Europa, inoltre, certifica che la spesa per la giustizia civile in Italia è superiore alla media degli altri paesi. Lo Stato italiano spende per il funzionamento dei tribunali 50,3 euro per abitante, il 36 per cento in più della media europea. La giustizia è un servizio fondamentale che lo Stato dovrebbe assicurare ai cittadini e alle imprese. Una giustizia inefficiente costituisce un fattore di disgregazione per la società e ne limita la crescita economica. “Nell’ovvio e semplice sistema della libertà naturale”, scriveva Adam Smith, “ogni uomo, purché non violi le leggi della giustizia, viene lasciato perfettamente libero di perseguire il proprio interesse a suo modo e di mettere la sua attività e il suo capitale in concorrenza con quelli di ogni altro uomo”. In Italia il “sistema della libertà naturale” è così ovvio? E il libero mercato quanto è imprescindibile per creare ricchezza e benessere in società sempre più articolate ed interconnesse? Una risposta possibile arriva da Serena Sileoni, avvocato e vice direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni, punto di origine di numerosi riflessioni su ambiente, energia, liberalizzazioni, fiscalità, privatizzazioni e Stato sociale. “Il sistema della libertà naturale non è ovvio in Italia come in ogni altro sistema – spiega Sileoni –. Il significato che diamo oggi alle “leggi della giustizia”, molto diverso da quello che dava loro Smith, rende l’equilibrio tra libertà e coercizione quotidianamente fragile e compromesso. Il libero mercato non è una soluzione definitiva né una minaccia alla concreta libertà naturale. Molto più semplicemente, è un sistema che consente di esercitare quella libertà. Un obiettivo straordinario, di cui benessere e ricchezza in senso venale non sono altro che parziali manifestazioni”. Dopo le vicende Expo e Mose il dibattito su etica, risorse pubbliche e corruzione cresce di tono. Le tangenti sembrano un male che non passa mai, legando come un filo rosso la prima, seconda e terza repubblica. È incurabile? È un rischio fisiologico, più che un male incurabile. Il problema è da un lato che una ingente mole di risorse viene gestita e destinata da chi non ne è “proprietario”, e dall’altro che la chimera del controllo amministrativo è in realtà la porta attraverso cui passa la corruttibilità del pubblico agente. Più si espandono i controlli, più le occasioni aumentano. Un supercommissario anti-corruzione con poteri sempre più vasti può essere parte della soluzione o, addirittura, diventare parte del problema? È solo la classica risposta politica. Si dice che per cambiare in meglio un sistema marcio e fallace occorre aumentare le pene. È un approccio valido? Meglio contribuire prima eliminando per quanto possibile le occasioni in cui i reati vengono perpetrati e, laddove occorrano, eseguire le leggi. Quali sono i cardini di una riforma della giustizia per chi si ispira ai principi del liberalismo? Ci sono tre livelli. Uno a lungo, lunghissimo termine su cosa ci aspettiamo debba fare la legge e quale ci aspettiamo sia il ruolo del giudizio e del confronto tra le parti. Non basta una riforma per cambiare la funzione che i cittadini assegnano alla legislazione e a un arbitro terzo. Il problema della lentezza della giustizia in Italia è dato anche dal ricorso massiccio ad essa, che ne ingolfa i corridoi. Occorre un’idea diversa di come si regolano le interazioni umane, dal lato dei cittadini, e un uso più accorto da parte del legislatore dello strumento normativo, riportandolo più verso il diritto che non verso la legislazione, per dirla con Bruno Leoni. C’è poi un livello più operativo, che riguarda la possibilità di gestire con più efficienza il lavoro nei tribunali, a partire dalle cancellerie. Sono anni che parliamo di processo telematico. Ne parliamo, appunto. Se ci sono tribunali che non hanno praticamente arretrati e funzionano bene nonostante non abbiano meno carico della media, evidentemente ci sono soluzioni gestionali da attuare. Infine, c’è la questione della responsabilità dei magistrati, una specie di cappello che andrebbe messo a tutela del generale funzionamento della giustizia. Parliamo di riforma delle professioni. Qual è l’obiettivo? Diminuire le barriere all’ingresso. Le “professioni cosiddette liberali” sono sistemi iperprotetti, le cui forme di protezione nascono come forme di garanzia della probità dei professionisti, ma di fatto alzano barriere all’ingresso per chi voglia iniziare. Riuscire a rendere le professioni un sistema dinamico in entrata e in uscita è un impegno a favore dei giovani e, lungi dall’essere una minaccia al decoro della professione, uno stimolo a rendere un servizio migliore ai propri clienti. Due problemi strutturali sono legati all’incertezza delle regole vigenti e la lentezza delle controversie giudiziarie: quali le strade risolutive da percorrere? Le controversie prolificano in un sistema incerto, eccessivamente regolato e perciò oscuro. Il problema di fondo quindi è comune, e non si risolve con un colpo di spugna di una legge di semplificazione né, tantomeno, con l’aumento delle piante organiche dei tribunali. È un problema di impostazione di quale sia lo scopo della legge. Bisognerebbe riflettere sul perché alcuni tribunali, pur avendo un uguale se non maggiore carico di lavoro rispetto alla media, riescono ad essere efficienti. Penso al tribunale di Torino, esempio virtuoso non solo per l’Italia ma per l’Europa. Penso che servirerebbe un po’ meno arte forense e un po’ più di senso pratico nella gestione dei problemi.


Antonluca Cuoco Salernitano, nato nel 1978, laureato nel 2003 in Economia Aziendale, cresciuto tra Etiopia, Svizzera e Regno Unito. Dal 1990 vive in Italia: è un “terrone 3.0″. Si occupa di marketing e comunicazione nel mondo dell’elettronica di consumo tra Italia e Spagna. Pensa che il declino del nostro paese si arresterà solo se cominceremo finalmente a premiare merito, concorrenza e legalità, al di là di inutili, quando non dannose, ideologie. È nel Direttivo di Italia Aperta, socio della Alleanza Liberaldemocratica e sostenitore dell’Istituto Bruno Leoni. Twitter @antonluca_cuoco