Scrivere, poesie e riflessioni di Luigi Finelli

281

di Fiorella Franchini

“Ho scritto poesie, un prodotto assolutamente inutile, ma quasi mai nocivo e questo è uno dei suoi titoli di nobiltà. Ma non è il solo, essendo la poesia una produzione o una malattia assolutamente endemica e incurabileˮ. A dirlo è Eugenio Montale, Premio Nobel, nel 1975, che parla della poesia come di qualcosa che può “contagiareˮ. SCRIVERE, poesie e riflessioni di Luigi Finelli, edito dall’Istituto Culturale del Mezzogiorno, è il diario di un male originario, atavico ed ereditario che ci condanna a guardare dentro noi stessi, a farci domande sull’assoluto.
C’è stato un tempo in cui la poesia ha dato voce altissima all’animo umano e, attraverso le parole, i poeti hanno interpretato emozioni universali. Oggi, che i mezzi di comunicazione sono cambiati e sono innumerevoli, questo avviene ancora?
Molti sostengono che questo non accada perché i poeti poeteggiano e non vivono, che la poesia oggi sia qualcosa di distante, che ha perso il collegamento con la realtà. Qualcuno afferma che non si mangia, non fa aumentare il prodotto interno lordo. A cosa serve, allora, la poesia? E’ una domanda difficile cui troppo spesso si danno risposte scontate, prevedibili e mai completamente appaganti.
E’ troppo superbo dire che non abbiamo bisogno di cose che servono. Tutto deve servire, tutto deve avere una sua utilità. E allora si dice che la poesia è medicina dell’anima ma anche questo non è vero. Intrattenimento? Ma quello è il terreno dei romanzi.
La poesia non intrattiene, ci interroga, ci angoscia, ci chiede di riflettere su di noi, a cosa serviamo. Viviamo in un’epoca degna di fare della poesia la sua eco? E se non è cosi, le nostre semplici esistenze sono abbastanza, sono sufficiente materia di poesia?Non è peccare di presunzione, inghirlandare sensazioni, brevi attimi, riflessioni? Volerli rendere momenti alti, scolpirli di parole? Forse sarebbe meglio tacere.
Un piacere estetico che contribuisce alla felicità pubblica e privata, sosteneva Parini, che può avere un’utilità morale; difatti, come alla religione, alla legge e alla politica, alla poesia si può attribuire un valore etico, d’impegno civile e sociale.
Nella nostra civiltà tecnologica, materialistica, arida, che spinge ognuno di noi alla ricerca spasmodica di un tornaconto economico, più che mai la poesia assume un ruolo centrale, volto a consentire all’uomo di riappropriarsi della sua dimensione spirituale, creativa, ma anche un’esigenza di comunicare e una necessità di emanciparsi da uno stato di solitudine interiore.
Scrivere…Potremmo parlare all’infinito del senso della scrittura: è una funzione biologica, a cui partecipano tutte le componenti istintive dell’essere. Se si sapesse perché si scrive, si saprebbe, allo stesso tempo, perché si vive, ha detto Jean Rostand.
Credo che sia propria la sua totale non-utilità che contiene in sé tutta la sua forza e quindi la sua necessità ultima: essere un punto interrogativo in un mondo che ha una riposta a tutte le domande, un mistero in un universo di spiegazioni e libretti d’istruzioni, capaci di risolvere tutti i problemi.
Essere bellezza senza scopo e, di più, essere gratuita tra gli uomini d’oggi che sono convinti che tutto abbia un suo giusto prezzo e che il valore della persona sia la somma esatta di ciò che produci in termini di utilità ed efficienza.
La poesia regala immagini e pensieri, non ci basta? Possiamo fare con essi ciò che vogliamo, rilassarci, lasciare che a volte ci colpiscano dove fa più male, lasciare, quando meno ce lo aspettiamo, che ci regalino inaspettate rivelazioni o anche che ci lascino indifferente. Va bene così.
La poesia non ha delle aspettative precise, ma ci attende ovunque. Non ha una patria, non c’è luogo che sia fatto per lei. A volte si concede facilmente, a volte sta in mezzo alla nostra esistenza, come enormi costruzioni di cui, anche se ci affanniamo con ipotesi e ricerche scientifiche, non conosciamo assolutamente il significato. Non conosciamo la natura della poesia e non la dobbiamo conoscerla La poesia è qui, in mezzo alla vita come un generoso invito. Altre volte è quell’attimo in cui non si pensa a nulla. Un invito che ci propone anche Luigi Finelli.
Scorrono le pagine della raccolta. Una parola dietro l’altra a formare una poesia, una parola dietro l’altra per dare un nome e un senso ad un’emozione, per restituirla poi a qualcun altro, affinché tutti noi possiamo dire: anche io. Affinché ciascuno di noi, leggendo, possa non sentirsi solo, perché il poeta parla a tutti nello stesso momento, con le stesse parole, ma in modo diverso. Penso che la cosa magica sia proprio questa: ognuno è solo davanti alla poesia, ognuno ne percepisce un senso tutto suo, diverso dall’altro. Finelli può farlo perché è entrato dentro un’emozione, l’ha vissuta intensamente e poi l’ha chiamata per nome.
Leggiamo le poesie e non vergogniamoci se non capiamo, non pensiamo che siano una cosa difficile e distante, roba per pochi, i poeti, quelli come Luigi Finelli, sono guerrieri, le loro vite non conoscono la via di mezzo perché l’amore per la vita non sta mai in mezzo.
Le parole non sono labirinti indecifrabili, sono lame affilate che tagliano l’anima. Se leggiamo e non capiamo, se le parole ci sembrano muri, se tutto sembra lontano, rileggiamo con i tempi dell’anima che sono più lenti della realtà convulsa che ci circonda
In Luigi Finelli ritroviamo le complicanze dell’essere umano, del bene e del male, del vero e del falso, del sentire tutto e niente, del dare e togliere, dell’amare e non amare nello stesso momento. N Un poeta ha un passpartout per il nostro sentire e scopriamo che lui conosce l’irregolarità dell’anima, il suo vagare sfuggente, il suo nascere e perdersi e rinascere, ecco, forse è proprio questo che fa un poeta: nasce e muore tante volte, poi rinasce in una continua dinamica di avvicinamento a se stesso e agli altri. Tanti concetti su cui può soffermarsi il lettore: il senso dello scrivere, il ricordo e la memoria, l’eternità che non esiste perché irriproducibile, la dimensione creativa. Luigi Finelli non inventa. Grazie alla sua esperienza di uomo e di medico e alla sensibilità artistica, ascolta e traduce in versi e parole ciò che non ammette traduzione: l’essere e il suo silenzio.
Scrivere è fede in questa magia: insieme a Luigi Finelli crediamo come ha scritto Vittorini, che un aggettivo possa giungere dove non giunse, cercando la verità, la ragione; o che un avverbio possa recuperare il segreto che si è sottratto a ogni indagine.