Figlicidio, la guerra trasversale degli uomini contro le donne

in foto Luigi Capasso

Si è tolto la vita dopo aver ucciso le due figlie di 8 e 14 anni il carabiniere che a Cisterna di Latina, pochi giorni fa si era barricato in casa per nove ore dopo aver sparato alla moglie. La donna, dalla quale il militare si stava separando, è ricoverata in ospedale, le sue condizioni migliorano, ma dovrà sopravvivere alla perdita più grande che una madre possa vivere: la morte della sue due figlie per mano dell’ex marito, diventato la sua più grande paura, come si legge nei verbali di denuncia della donna, sino al mattino in cui è diventato il sicario che l’ha colpita ed ha ucciso poi le loro figlie. Uomini che minacciano le donne, rabbia e rancore che in loro cova alla fine di una storia che non riescono ad accettare, e spesso i figli diventano arma di bersaglio. Si chiama “figlicidio”, ed è una delle forme più terribili di femminicidio, diventando l’arma più potente che un uomo ha nel far del male ad una donna, uccidendo il proprio figlio. Un numero in crescita seppur ancora incerto, tanto che se ne chiede di riferirne in Commissione Parlamentare per l’Autority dell’Infanzia. Colti nel sonno, approfittando del loro assoluto senso di sicurezza, si consuma così l’infanticidio la vendetta trasversale del femminicidio: colpiscono i figli, indifesi e deboli, per fare del male alla madre. Dietro l’infanticidio si cela un messaggio, i padri che uccidono i figli per colpire le madri, vogliono dimostrare di essere padroni della famiglia, per punire compagne che hanno pensato di lasciarli. Non un raptus di follia, ma un omicidio premeditato con violenza, scegliendo le vittime più deboli: i bambini. I figli sono visti come il riflesso della madre, come punto debole anche delle donne più forti, come vittime predestinate che scontano le colpe delle donne in una sorta di rivendicazione maschilista della sovranità in famiglia. I padri sanno che i figli sono gli elementi deboli, più indifesi, sanno, che colpendo loro, colpiscono anche la madre che è poi la vera vittima degli omicidi. Non una follia improvvisa, ma è un male omicida che matura nel tempo. L’identikit che viene tracciato dagli psichiatri che assicurano che non si tratta mai di un fulmine a ciel sereno e tendere a giustificare non aiuta nemmeno a cogliere i segnali di un eventuale pericolo. Nella maggior parte dei casi ci si trova di fronte ad uomini tra i 35 ed i 50 anni che usano armi da taglio o pistole. Le statistiche tracciate dai criminologi mettono in relazione l’aumento dei casi con il crescere di separazioni e divorzi. Come per il femminicidio, l’infanticidio è la risposta violenta e brutale di quegli uomini che non sanno accettare la separazione, che vedono il divorzio come una minaccia per la loro mascolinità e che uccidono per riprendere il controllo. Alla base c’è un’idea distorta della famiglia vista come mezzo di affermazione e di potere e non come nucleo familiare condiviso: i figli e la moglie sono trofei da sfoggiare e quando la realtà bussa alla porta c’è solo la violenza. In psichiatria si tende a chiamarlo “feudalesimo affettivo” per descrivere questa concezione di famiglia. Padri e mariti che considerano figli e mogli come una proprietà, uomini malvagi che comunque non possono non aver lanciato dei segnali. Non ci sono giustificazioni per questi assassini, non è la famiglia, la compagna, i figli a togliere spazio e libertà: sono loro a togliere la vita in nome di un maschilismo retrogrado e stupido. Restano delle donne e delle madri che nonostante il coraggio, la forza della denuncia e della ribellione, devono fare i conti col dolore più grande: la perdita di un figlio, amplificata dall’assassino che è stato il loro amore nella vita. Donne che chiedono aiuto e tutele, sostegno e rete sociale che sia reale e veritiera, che ci sa certezza e non insicurezza. Donne che non vanno lasciate sole già dall’instante in cui denunciano il loro ex compagno, vanno supportate e protette: dalla legge sino ai servizi, ma resta solo al momento un bel proclama che non smetteremo mai di scrivere e di urlare, sperando che di “tragedie annunciate” non ce ne siano più.