Fuga dei partiti dalla realtà

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in foto i simboli dei tanti partiti italiani scomparsi negli ultimi decenni

Settimana ricca di notizie e, forse, anche di colpi di scena sul piano sia della politica che dell’economia. Era cominciata col botto della maggiore autonomia richiesta dalle regioni Lombardia e Veneto a favore della quale – come si sa – si sono espressi gli elettori locali che si sono recati alle urne. Pochi, in verità, nella regione della cosiddetta capitale dell’economia, in maniera più che sufficiente (anche rispetto alle frequentazioni più recenti delle cabine elettorali) nella seconda, che invece dell’economia nazionale sta dimostrando di essere il vero motore. Il tutto, nemmeno a ripeterlo, nel silenzio assordante dei grandi (si fa per dire) partiti la cui nomenklatura,  probabilmente, sperava appunto nella diserzione degli elettori, ma senza avere per questo il coraggio di dichiararlo, oppure perché distratta da altri interessi. Nel caso del Pd, maggiore azionista del governo di Paolo Gentiloni, l’ex premier Matteo Renzi era probabilmente molto preso dalla pianificazione del tour propagandistico della penisola in treno. E, magari, anche dalla finta mozione di sfiducia per omessa vigilanza annunciata nei confronti del governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, che infatti è stato confermato nell’incarico per altri sei anni.

E, tuttavia, almeno a parere di chi scrive, sarebbe stato apprezzato non poco una presa di posizione netta contro l’iniziativa referendaria, pur sapendo della sconfitta certa, o anche ponendo una semplici e chiara domanda: autonomia da chi e per che cosa? Tanto più che, formulato nei termini in cui è stato fatto, al di qua del Garigliano il quesito referendario suonava – mi pare – un po’ come la domanda che solitamente si pone all’acquaiolo. Insomma, la risposta sulla freschezza dell’acqua era più che scontata. Ma forse sono io nell’errore, dal momento che mi vedo in maniera preconcetta (ma mica tanto, poi) contrario sia al regionalismo che al federalismo, forme istituzionali che reputo autentica iattura per l’Italia. E ancor più se si guarda al contesto geopolitico europeo. E magari al day after della stessa Catalogna. Ma questo è un altro discorso.

Tra i fatti salienti dell’ottava vanno registrate, poi, l’approvazione della nuova legge elettorale, tra fiducia al governo, contestazioni, proteste e lacerazioni trasversali a tutti i partiti. Da ultimo, come sapete, il presidente del Senato Pietro Grasso si è dimesso dal gruppo parlamentare del Pd, del quale era esponente di punta. Mentre non pochi, con in testa l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano (anch’egli della stessa parrocchia), hanno votato malvolentieri a favore della nuova legge e, dunque, come si dice in questi casi, turandosi il naso.

Tra le news anche la sostanziale conferma delle politiche monetarie da parte della Bce e, dunque, della linea di Mario Draghi. Nell’incontro mensile con la stampa il presidente della Banca europea ha assicurato che il Quantitative Easing continuerà oltre il termine previsto per dicembre 2017 (fino a settembre 2018, forse) anche se la liquidità iniettata mensilmente nel mercato scenderà da 60 miliardi a 30 miliardi di euro. Immancabili le ripercussioni sul cambio Eur/Usd, che è sceso fino a 1,1618 da 1,1836 per la gioia dell’industria nazionale orientata ai mercati esteri.

A proposito, incidentalmente, Mediobanca ha anche ricordato che tra le principali Borse mondiali negli ultimi dieci anni Milano è stata la peggiore, più di Lisbona, Mosca e Madrid, le altre in negativo. Cento euro investiti in Piazza Affari nel 2006 – ha calcolato Mediobanca – si sono oggi ridotti a 83,6 (-1,6% annuo). Di contro, l’indice migliore è stato il Nasdaq, che ha invece più che triplicato il suo valore, mentre la media dei Btp ha assicurato un rendimento annuo del 4,9%.

Infine, tre notizie positive che, però, solo all’apparenza fanno rallegrare. E non a tutti. La prima è che è salita l’aspettativa di vita. Lo scorso anno i decessi sono diminuiti del 5%. Il risvolto di questa medaglia, però, è che nel 2019 la pensione di vecchiaia arriverà soltanto a 67 anni. Dicono che alla notizia l’ex ministra Elsa Fornero, di cui la riforma è figlia, abbia pianto di nuovo. Non ci credo. La seconda è che, finalmente, nel 2015 si è registrata una diminuzione del 2,1% di aziende partecipate dal settore pubblico. E però – guarda caso – i dipendenti sono aumentati del 4,3%. Infine, sono diminuiti (-3,1%) i collaboratori domestici (tra colf e badanti se ne sono contati 860 mila nel 2016), ma sono aumentati gli italiani, che rappresentano ormai un quarto del totale. Di questi, in crescita soprattutto i lavoratori delle classi di età più elevate (dai 45 anni in poi) che nel 2016 erano il 61% del totale, mentre nel 2013 costituivano solo il 50,4%.

E qui c’è davvero poco da commentare.