Il sognatore sveglio, a Castel Nuovo la follia dell’Arte di Antonio Ligabue

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“Gli uomini mi hanno chiamato pazzo; ma la questione non è ancora risolta, se la follia sia o non sia l’intelligenza più alta” ha scritto Edgar Allan Poe ma, fissando il suo autoritratto, sembra che a confidarlo sia proprio lui, Antonio Ligabue. 
Fino al 28 gennaio la Cappella Palatina di Castel Nuovo ospiterà oltre ottanta opere, di cui cinquantadue oli, sette sculture in bronzo, una sezione dedicata alla produzione grafica con otto disegni e quattro incisioni e, una sezione introduttiva sulla sua vicenda umana. La mostra, promossa dal Comune di Napoli – Assessorato alla Cultura e al Turismo, con la collaborazione della Fondazione Museo Antonio Ligabue di Gualtieri e con l’organizzazione generale di C.O.R Creare Organizzare Realizzare, è curata da Sandro Parmiggiani e Sergio Negri, massimi esperti dell’opera dell’artista. 
Un’esposizione monografica che racconta il percorso storico e critico dell’opera di Ligabue, ne mette in evidenza il fascino e l’attualità il dolore, la sensibilità profonda e una straordinaria abilità artistica.  Ebbe un’infanzia infelice, segnata dalla perdita di tutta la sua famiglia, poi un’adozione difficile in Svizzera, l’adolescenza in Val Padana, i problemi mentali e di comunicazione, il manicomio. Espulso dalla Svizzera, verrà allontanato dalla famiglia adottiva perché violento, confinato in una classe “differenziale” perché “subnormale”. Farà il contadino, ma non sopporterà la brutalità sugli animali e verrà mandato a Gualtieri, sulla riva del Po, dove vivrà di carità. Una vita dolorosa, ripercorsa in un filmato in mostra, “Lo specchio, la tigre e la pianura” di Raffaele Andreassi del 1960.
Antonio Ligabue riverserà nell’arte i suoi dolori e le sue felicità. “Un sognatore sveglio” lo definirebbe Freud che rintraccerebbe nei suoi quadri “la trasfigurazione dei suoi demoni interni”. Tuttavia, la lettura psicoanalitica appare oggi estremamente semplicistica e allontana dal significato profondo della sua opera. La malattia lo rese pazzo di vita, di emozioni, uno di quelle anime, potremmo dire parafrasando Jack Keruac, che “bruciano…bruciano come favolosi fuochi artificiali color giallo che esplodono come ragni attraverso le stelle – lo avrebbe descritto Jack e nel mezzo si vede la luce azzurra dello scoppio centrale e tutti fanno ooohh”.
Pittore naif per definizione, si è voluto spesso confinare la sua produzione entro i limiti di un’arte ingenua, semplice, quasi dilettantistica, priva di legami con la realtà culturale e accademica della società.  L’artista naïf è di solito autodidatta, senza una specifica formazione artistica, spesso di livello culturale ed estrazione sociale modesti. In effetti molti critici rilevano nei dipinti di Antonio Ligabue, soprattutto nei primi periodi,  una notevole semplificazione concettuale, una certa modestia tecnica ed esecutiva, sia nel disegno che nella stesura del colore e nell’impianto prospettico e compositivo d’insieme. Il tema predominante è la rappresentazione della realtà quotidiana intrisa di colorata immaginazione e sottile poesia: la campagna in cui reinterpreta motivi dell’ambiente svizzero mischiati a quello padano, villaggi che sembrano usciti da un libro di favole, foreste rigogliose e selvagge. 
Eppure, vagabondando tra giungle e piazze, tra animali esotici e mucche da latte, tra nature morte e carrozze, è difficile pensare che tutte quelle immagini siano state viste dall’artista soltanto nelle figurine Liebig o sulle pagine dello splendido bestiario illustrato di Brehm degli anni Trenta, che non abbia mai sfogliato, soprattutto dopo l’incontro con alcuni critici e l’artista Renato Marino Mazzacurati, che lo scoprono, un volume di storia dell’arte o visitato una galleria. 
Non di rado il lavoro di Ligabue ricorda quello di Henri Rousseau, di Picasso o di Dürer. D’altra parte la stessa arte naif dalla fine del XIX secolo assunse rilevanza storica quando Rousseau il Doganiere espose al Salon des Indépendants del 1886, suscitando l’interesse e l’ammirazione di Alfred Jarry e Guillaume Apollinairee  e, anni più tardi, del giovane Pablo Picasso, fino a raggiungere una certa popolarità in Germania e in Francia ai primi del Novecento. Negli anni sessanta, anche sull’onda delle sperimentazioni avanguardiste e delle teorizzazioni dell’Art Brut di Dubuffet, che promuoveva un’arte senza intenzioni estetiche, per una personale pulsione emotiva confluente in una comunicazione immediata e sintetica, esponendo disegni di bambini e alienati mentali, Antonio Ligabue riscuoterà un certo successo e si parlerà di lui in tivù e in raffinate pubblicazioni di Zavattini e Alberto Manguel. 
Sicuramente all’ispirazione e alla fantasia di Ligabue contribuirono suggestioni varie, provenienti da diversi generi artistici, persino dal fumetto, che egli rielaborò in modo personalissimo, dando ai suoi quadri quasi un rilievo “cinematografico”. Le tele e i disegni hanno un impatto immediato sul visitatore, lo inquietano e lo affascinano. Una vera e propria esperienza estetica ed emozionale in cui la percezione visiva “implica il coinvolgimento di molte strutture cerebrali e l’attivazione di meccanismi ben specifici, quelli della cosiddetta “psicologia del vedere”. Questo si riferisce non solo all’emozione provata da chi gusta un dipinto ma anche al momento creativo che coinvolge l’artista per realizzare la sua opera… L’opera d’arte deve riuscire a suscitare nel cervello dell’osservatore sensazioni ed emozioni che sono state presenti nel cervello dell’artista (Maffei L., Fiorentini A., 1995). 
Antonio Ligabue con quegli occhi obliqui, rivolti lateralmente, invita a guardare oltre la tela, verso un luogo lontano, diverso per ognuno, e nel mistero di quello sguardo c’è tutto il senso della vita, che sia folle o meno, la voglia di viverla, sempre.