Le nuove prospettive del Partito Comunista Cinese

Il PCC, nella fase in cui è governato da Xi Jinping e dal premier Li Kekiang al governo dello Stato, si sta trasformando con notevole rapidità.
E questo è un dato geopolitico e strategico di grande importanza, anche per l’Europa e gli Usa.
A pochi anni dal raggiungimento del suo centesimo anniversario, il Partito fondato a Shangai nel 1921 risulta ancora un ircocervo, sia per la tradizione comunista derivata dalla Terza Internazionale che per l’evoluzione e, talvolta, la sparizione, che hanno subito i partiti comunisti al potere in Urss, nei suoi satelliti dell’Europa dell’Est e in molti Paesi asiatici.
Infatti, il PCC è insieme un grande partito di massa e una organizzazione politica che, proprio nel solco della Terza Internazionale, presiede lo Stato e ne comanda gli indirizzi politici.
Lenin pensava ad un Partito piccolo e di militanti-dirigenti che elabora la linea e, tramite lo Stato, la impone alla società.
In Urss, il Pcus si è infatti autodistrutto entrando nella società civile, in Cina invece il PCC si rafforza acquisendo e selezionando gli elementi migliori della società e rappresentando le grandi masse all’interno e al di sopra dello Stato.
Ci torna alla mente, qui, il ricordo dei sorrisi sarcastici e delle battute feroci che la dirigenza del Partito Comunista Cinese; e già allora era al potere il Deng Xiaoping delle “Quattro Modernizzazioni”, offrì a Gorbaciov in visita ufficiale a Pechino mentre era in azione la “rivolta di Tien An Mien” degli studenti che volevano la “democrazia”.
La repressione, come è noto, fu ferocissima. Il PCC non delega ad altri il potere di riformare la società cinese.
Ecco quindi un Partito come il PCC che è del tutto tradizionale, nel suo rapportarsi allo Stato e alle masse, ma appare del tutto nuovo nel trasformarsi in una organizzazione di massa, rimanendo peraltro la fonte della legittimità dello Stato cinese.
Le fonti ufficiali di Pechino ci dicono che, alla sua fondazione nel 1921, il Partito contava solo cinquanta iscritti.
Oggi, dato che il PCC ha saputo capire i tempi nuovi della globalizzazione, esso si compone di 87,7 milioni di membri, uno ogni sedici cittadini cinesi.
Più della popolazione dell’intera Germania, è bene ricordarlo.
Il 75% degli iscritti oggi è di sesso maschile, il 43% ha almeno una formazione di scuola media superiore, il 30% è composto da contadini, pastori e pescatori, il 25% da impiegati, il 18% da pensionati, ma solo l’8% da funzionari pubblici.
I 50, o più probabilmente 57 membri fondatori del PCC a Shangai erano, invece, tutti membri delle classi dirigenti, con 27 studenti, 11 giornalisti, 9 docenti.
Nel 1949, quando il Partito Comunista Cinese è già controllato da Mao Zedong e prende il potere eliminando i nazionalisti, gli iscritti erano quasi quattro milioni.
Il PCC sceglie, fin dall’inizio, il meglio della società cinese, variando anno dopo anno i suoi obiettivi: talvolta le élites intellettuali o, in anni diversi, le masse contadine e operaie.
Il classico dilemma del “Rosso” rispetto all’”Esperto”, che il PCC non scioglierà mai, nemmeno nei momenti più feroci della “Grande Rivoluzione Culturale e Proletaria”.
Con Deng Xiaoping, che chiude duramente la fase delle “Guardie Rosse”, spesso spedendole in durissimi campi di lavoro, il PCC raggiunge un 50% di tecnici, specialisti, insegnanti ed “esperti”.
Oggi, gli studenti universitari sono il 40% delle nuove reclute del Partito.
Un PCC che non rinuncia affatto ad essere un partito di massa ma organizza anche le élites: è uno dei tratti più significativi di quello che i dirigenti di Pechino chiamano “il socialismo con caratteristiche cinesi”.
Xi Jinping, inoltre, non vuole più un partito che “prende tutti” o che raccoglie militanti senza qualificazione, ma tende a trasformare progressivamente il PCC in una organizzazione ancora più selettiva di quanto non lo sia oggi.
La selezione è sempre condotta, silenziosamente, dal Partito, che ascolta gli amici e i colleghi dei candidati e chiede se questi sono “frugali”, “onesti”, “corretti”.
Il silenzio, per le fonti degli ispettori del PCC, è d’obbligo.
Altrimenti, il Partito “se ne ricorderà”.
Tutte le imprese pubbliche e tutte le aziende estere hanno, al loro interno, una sezione del Partito, e questo permette una migliore relazione tra le aziende e il potere pubblico.
Se dovessimo quindi analizzare il PCC secondo la moderna teoria del partito politico di Giovanni Sartori, dovremmo dire che il Partito Comunista Cinese è insieme “organo di intermediazione sociale” e “meccanismo di rappresentanza”.
Il Pcus sovietico è crollato perché era solo intermediazione sociale ma non era rappresentativo, mentre il PCC si espande poiché è, efficacemente, entrambe le cose.
La finalità, dettata da Xi Jinping, è quella di creare una “società moderatamente prospera”.
E’ l’evoluzione della teoria di Xi Jinping dei “quattro complessivi”, resa nota all’inizio del 2015.
Eccoli: “costruire complessivamente una società moderatamente prospera”, “il complessivo approfondimento delle riforme”, “il complessivo stato di diritto” e “la complessiva realizzazione della disciplina di Partito”.
La moderata prosperità è un concetto del tutto confuciano, è bene ricordarlo; e la moderazione a cui si aspira è quella dell’equilibrio delle facoltà dell’uomo e del rapporto tra mente e desiderio, non si tratta di una “moderazione” antiepicurea in senso occidentale.
Il punto primario è, quindi, la prosperità.
Negli ultimi trenta anni, lo dicono le solitamente affidabili statistiche ufficiali cinesi, 700 milioni di cinesi sono usciti dallo stato di povertà.
Soprattutto ciò accade oggi nelle aree agricole, dopo lo smantellamento, da parte di Deng Xiaoping, delle comuni dei contadini, la Prima Modernizzazione fu infatti quella dell’agricoltura.
I contadini cinesi sono, però, il 56-68% della popolazione totale, ovvero il 12-14% di quella mondiale.
La modernizzazione delle campagne di Deng non funziona però del tutto e, all’inizio degli anni ’90, la società contadina cinese si ritrova ancora stratificata, impoverita e con uno scarso tasso di produttività, mentre le città crescono a dismisura e pesano sempre più sulle risorse rurali.
Città e Campagna, i due termini della teoria di Mao Zedong sia all’interno della Cina comunista che in politica estera, i due corni dell’eterno dilemma della Terza Internazionale, dalle crisi agricole in Ucraina del 1932-33 fino alla carestia staliniana del 1950.
Quindi, Xi Jinping, che sa bene come la crisi del mondo agricolo cinese non sia certo scomparsa con la semi-privatizzazione della terra e dei prezzi, ha mandato ben 770.000 funzionari e dirigenti del Partito nelle periferie contadine cinesi, per sradicare la povertà e, quindi, stabilizzare, anche politicamente e socialmente, le campagne.
Si evita così che l’eccesso di popolazione dei campi arrivi a riformare una sorta di lumpenproletariat nelle periferie urbane.
Con effetti terribili per la stabilità politica e sociale cinese.
Una società con eccessive differenze di reddito non è mai “armoniosa”, per usare un concetto confuciano divenuto ormai caratteristico del PCC.
E l’operazione ha funzionato, almeno per ora.
Dal 2013 al 2016, altri 56 milioni di abitanti delle campagne sono infatti usciti dallo stato di povertà; e il processo, a cui Xi Jinping conferisce primaria importanza, continua.
Per avere un PCC che funziona come ossatura dello Stato e, insieme, della società civile, deve essere però eradicata, in primo luogo, la corruzione, come abbiamo visto in tutti questi anni in cui è al potere Xi.
Un milione e poco più di dirigenti del Partito puniti, a vario titolo, per la loro corruzione fino al 2016, ben 210.000 già sanzionati nel solo 2017.
Xi Jinping è oggi pienissimo arbitro del partito e delle sue carriere, forse nemmeno Mao Zedong aveva, a suo tempo, un tale potere.
Ma Xi, invece di distruggere tutti i suoi concorrenti, sta creando una nuova leva di dirigenti giovani, tutti provenienti dal PCC, che sostituiranno rapidamente i vecchi satrapi della burocrazia.
Ma, oltre alla repressione della corruzione, occorre rinnovare e potenziare, come sta facendo il PCC, il meccanismo dell’ispezione politica.
Nata all’atto della fondazione del PCC, la Commissione Centrale di Disciplina ha da sempre un fortissimo potere, ma viene abolita nel 1969 in seguito alle ben note lotte interne al Partito.
Rinasce nel 1977 e viene inserita, come accadeva dal 1949, nella Costituzione del Partito.
Anche prima di Xi, la Commissione Centrale di Disciplina fa espellere, dal 1982 al 1986, 25.000 iscritti al Partito e fa comminare a 67.000 altri membri del PCC una serie di sanzioni disciplinari.
Una struttura che non ha mai ridotto i suoi poteri specifici ed è arbitra delle principali carriere interne al Partito e allo Stato.
Nella “linea” di Xi Jinping la lotta alla corruzione, che con la sua direzione ha raggiunto livelli prima inimmaginabili e toccato altissimi dirigenti, come Bo Xilai e Ling Jihua, la pulizia interna al Partito si coniuga alla rifondazione dello stile di lavoro del Partito e a un rafforzamento della disciplina interna.
Le “otto indicazioni” del Politiburo del dicembre 2012 indicavano già uno stile di vita morigerato e modesto per tutti i dirigenti, inoltre Li Keqiang ha imposto nuove norme per la trasparenza dei bilanci pubblici e ridotto il numero di approvazioni governative per le spese, eliminando evidenti possibilità di generare tangenti.
Gli ispettori del PCC oggi sono inseriti, spesso di nascosto, in tutti gli organi del governo e in tutte le strutture regionali e locali.
Il sistema è tale che gli ispettori sono direttamente responsabili per gli errori o le “dimenticanze” sul comportamento dei vari membri del Partito e del Governo.
Prima di Xi Jinping (e di Wang Qishan, il suo capo dell’anticorruzione) gli incentivi ai dirigenti nazionali o locali si basavano sul raggiungimento di determinati obiettivi economici, oggi la concessione di premi in denaro o in avanzamenti di carriera è connessa a tutto il comportamento dei funzionari e, soprattutto, alla loro onestà.
Che si sovrappone all’ubbidienza alla linea del Partito, del Comitato Centrale e, naturalmente, di Xi Jinping.
Le ispezioni hanno poi il fine, squisitamente politico, di salvaguardare l’autorità e la leadership unitaria e centralizzata del Comitato Centrale.
Xi Jinping sa benissimo che ogni attività corruttiva è, come ci hanno dimostrato gli studi sulla criminalità organizzata nel Meridione d’Italia, una forma di secessione di fatto dal “centro” politico.
Quindi, ritorno del centralismo del Partito, senza le sciocchezze “federaliste” che stanno distruggendo l’Europa, mantenimento del ruolo direttivo del PCC su tutta la società cinese, mantenimento infine del ruolo di leader incontrastato di Xi Jinping nel Partito Comunista Cinese.
Tre elementi che si collegano strettamente tra di loro.
Finora, vi sono stati ben 12 cicli di ispezioni nel Partito, ispezioni che riguardano le organizzazioni del PCC a tutti i livelli, le imprese pubbliche, le banche e le società finanziarie, le università.
Da qui, da questo processo di ristrutturazione politica e morale, ha inizio la modifica di una parte della Costituzione.
Il prossimo XIX Congresso Nazionale rappresenterà l’ultima e definitiva sinicizzazione del marxismo.
Un PCC più forte, più autorevole ma, soprattutto, e qui sta la novità rispetto alla tradizione occidentalista della Terza Internazionale, più integrato con la società civile.
Sviluppo allora del socialismo “con caratteristiche cinesi”, il che vuol dire fare il socialismo in una società che non è stata industrializzata dalla borghesia nazionale, ma dagli stranieri, che è largamente agricola, mentre il marxismo pensa soprattutto agli operai delle industrie, che è fortemente tradizionale, mentre il socialismo dell’occidente eredita gli aspetti più radicali dell’illuminismo borghese.
Il fine di questa operazione di inserimento del PCC, reso autorevole dalla battaglia contro la corruzione, è quello della società “moderatamente prospera” di Xi Jinping, ovvero di un progresso equilibrato nell’economia, nella organizzazione politica, nella evoluzione culturale, sociale ed ecologica.
Autocontrollo del Partito, quindi e, cosa che accade per la prima volta nella storia del PCC, l’affermazione di un concetto tipico della tradizione politica occidentale, lo “stato di diritto”.
L’inserimento nell’Interpol della Cina, che data dal 1984, è, come ha affermato recentemente Xi Jinping alla Assemblea Generale dell’Interpol a Pechino del 26 settembre scorso, uno strumento per la costruzione di un sistema mondiale integrato di sicurezza collettiva sia sul piano strategico che su quello della repressione dei reati personali.
La nuova sicurezza, e qui Xi parlava di politica internazionale tra le righe, dovrà essere in futuro comune, globale, cooperativa e sostenibile.
Di qui, un sostegno alla sicurezza dei Paesi in Via di Sviluppo e la percezione, da parte di tutti gli attori, degli interessi degli altri.
Potremmo parlare qui di una geopolitica confuciana.
Non è un procedimento difficile, quello di pensare anche agli altri, si tratta di cambiare stile di pensiero e di mettersi nei panni degli altri, per evitare reazioni eccessive, scomposte e, soprattutto, pericolose per il bene supremo delle nazioni, ovvero la stabilità mondiale.
Quindi, stabilità e sicurezza al proprio interno, con la centralizzazione e la moralizzazione del PCC, sicurezza e stabilità nel quadro internazionale, con uno Xi Jinping che difende vigorosamente la globalizzazione a Davos, contro il ritorno del nazionalismo economico negli Usa, sicurezza e centralizzazione degli interessi cinesi in Asia Centrale, che diverrà presto la piattaforma di lancio della Cina come grande potenza globale, ben oltre il suo già rilevantissimo potenziale economico.

Giancarlo Elia Valori