La politica, dagli anni ’70 in poi, ha subito una trasformazione concettuale molto vasta e approfondita. Non mi riferisco qui alla solita e banale questione sulla “crisi delle ideologie” o alla cessazione delle narrazioni totalizzanti, di destra o di sinistra. L’idea che il mondo post-moderno, che già allora si delineava all’orizzonte, potesse fare a meno di quelli che Wittgenstein chiamava “super-ordini di superconcetti” è stata però seppellita oggi dalla realtà. Ai nostri giorni operano tra di noi, nella scena politica e filosofica, superordini ben più grandi di quelli che si muovevano all’interno del mondo bipolare.
Si pensi alla politica post-moderna derivata dalla filosofia nicciana, o alla vastissima questione derivante dal confronto tra i modelli occidentali, laici e religiosi, con quelli tipici dell’Islam (e della cultura tradizionale cinese).
Il primo dato da porre all’attenzione del lettore è quindi che la tecnica, intesa positivisticamente come prassi avalutativa, non riesce a definire nemmeno il suo oggetto e l’ambito del suo funzionamento.
Se infatti accenno a una procedura per risolvere il problema politico e sociale X, se uso solo la tecnica non riesco nemmeno a delimitarlo e quindi a risolverlo. Dove inizia e finisce l’effetto delle nuove tecnologie robotiche? Non c’è un limite che le possa designare materialmente. Ogni tecnica ha quindi una sua sfera valoriale definita, e ogni applicazione della tèchnè è sottoposta ad una serie di approvazioni concettuali, filosofiche, storiche, ideali, che non sono scritte nella procedura ma, nondimeno, vi si trovano sempre.
Se non avessi un criterio filosofico per definire la giustizia sociale, potrei egualmente accettare l'”Obamacare” o il nostro SSN italiano, ma si tratta di due scelte radicalmente diverse tra di loro. E allora, qual’è la “politica sanitaria” par exellence?
E, ancora, il concetto si basa sempre sul riconoscimento del suo limite, che non è solo applicativo, ma descrittivo. Limite che non trovo prima, ma lo devo verificare nella realtà, applicando il concetto in modo semicasuale.
Una cosa è quella cosa e non un’altra. Se perdo la designazione dell’idea, e quindi il suo limite naturale, non ho un concetto, ma un flatus vocis che identifica con lo stesso segno almeno due cose diverse e, magari, opposte. L’idea quindi che in politica oggi non esistano più limiti concettuali efficaci non è solo una risorsa della propaganda, ma un vero e proprio limite pratico e ideale.
Non si risolve la disoccupazione con il “salario sociale”, perché il suo costo va a pesare su quelli che ancora lavorano e pagano le tasse. Non si risolve la crisi della scuola facendola diventare ancora più facile, dato che in questo modo la si rende ancora più inutile. Ma purtroppo oggi, in tutte le procedure politiche standard degli attuali governi, opera un paradosso.
Che è quello della somma e delle parti. Posso anche ritenere che la “Deposizione” di Rosso Fiorentino sia solo un insieme di pennellate, ma comunque non posso riprodurre mai esattamente la “Deposizione” . In politica, questo significa che io posso anche separare, con un procedimento parascientifico (e inutile) i tratti di un fenomeno (ammesso che poi questo fenomeno non si trasformi in un altro) ma non posso risolverlo solo ricomponendo in modo diverso le sue parti.
Non posso infatti risolvere il deficit demografico con l’immigrazione, perché questo fenomeno ha un costo che non ci sarebbe se ci fosse un normale tasso di sostituzione demografica; e anche perché costruire forza-lavoro che viene da altre parti (al netto delle spese di trasferimento, non certo trascurabili) è cosa molto diversa che crearla in loco.
Quindi, il mito popperiano della “ingegneria sociale” è appunto un falso mito, dato che non si possono riprodurre integralmente fenomeni complessi come quelli politici e che, inoltre, nessun fatto politico è del tutto isolabile dagli altri. A questa mitologia della “ingegneria sociale” si ricollega anche l’idea che i miti, le idee, le motivazioni delle popolazione e delle classi dirigenti siano del tutto irrilevanti, delle vecchie “sovrastrutture” nel senso marxiano del termine. Ci sono però le reazioni fisiche, chimiche e biologiche. La politica, soprattutto quella estera, è una reazione biologica.
Altro grave errore, questo: la politica, e soprattutto la politica estera, è fatta di miti, percezioni, modelli culturali, simboli. Non ci sarebbe la grandeur attuale di Emmanuel Macron, in Francia, se prima non ci fosse stato Charles De Gaulle. E il complesso di inferiorità della nostra classe politica, quando crede di occuparsi di politica estera, deriva dall’aver introiettato, ingenuamente, la narrazione che di noi aveva fatto l’ex-nemico diventato amico dopo la Seconda Guerra Mondiale. Mentre i tedeschi dell’Ovest non si sono mai del tutto pentiti o accorti del Terzo Reich, data la propaganda e la “riforma del carattere” intervenuta con l’occupazione alleata, gli italiani si sono visti cadere addosso tutte le colpe, oltre quella, naturalmente, di essere stati “traditori” o “infidi”.
Chi si fa costruire addosso la propria identità dall’altro, la perde. Per non parlare poi del fatto che l’Italia repubblicana ha sempre evitato di fare politica estera in proprio, mascherandola, per paura del più grande PC dell’Occidente, in obbligo di alleanza atlantica o, più recentemente, in comici “peacekeeping” laddove vi è la guerra.
Il dato vale per tutti i Paesi occidentali, oggi: la politica estera non interessa più all’elettore, che vuole o beni simbolici ma nazionali (la lotta contro la “casta”) o beni reali, come il posto di lavoro o la pensione. Di eguale rilievo interno. Le democrazie contemporanee non reggono più alla prova della politica estera, che necessita di menti a vasto raggio e di una capacità di previsione non comune. Nondimeno, è proprio dalla politica estera, in tempi di globalizzazione, che vengono molti dei beni simbolici e reali che appaiono essere tipici della politica interna.
Oggi, peraltro, la politica estera, in Italia e fuori, la si fa sulla base di scelte del tutto arcaiche e palesemente propagandistiche, e al più basso livello, vedasi la famosa “diffusione della democrazia” o, in termini appena un po’ più strutturati, la “lotta contro il terrorismo”. Il terrorismo è una delle tecniche del jihad, ed è appunto questo il vero contesto della guerra asimmetrica lanciata contro noi, “ebrei e infedeli”, da una vastissima parte dell’Islam contemporaneo.
Né vale qui la solita deduzione, di tipo paleomarxista, che sotto al jihad c’è la questione del petrolio. C’è quello certamente, ma c’è il tentativo di unificare l’Islam dopo che molti “stati falliti” musulmani si stanno frazionando, c’è la lotta islamista per prendersi Africa e Asia, dove i vecchi Paesi della “guerra fredda” non operano più, c’è infine la gestione ideologica e politica della immane emigrazione islamica nei paesi occidentali. In politica estera non vi è un “fondamento”, ce ne sono tanti e simultanei, sempre.
La somma delle parti non dà la forma dell’insieme, la sequenza dei fenomeni non indica il loro reale rilievo, il tempo in cui i fatti storici appaiono non narra o indica la loro importanza.
Naturalmente, vale ancora qui, per le nostre classi politiche, la legge di Tip O’Neill, vecchio senatore Usa: ogni politica è politica locale. E vale qui anche la tesi della rational choice di Ian Budge: ogni politico cerca in primo luogo di essere rieletto. Ma oggi, lo abbiamo già notato, è la politica estera che deforma quella interna, non è più come ai tempi della “guerra fredda”, quando la politica estera, in Italia, ce la facevamo fare addosso dai nostri alleati.
Ma come si dovrebbe pensare, oggi, in politica estera? Intanto si dovrebbero disegnare le successioni e le conseguenze più probabili di una determinata scelta. Senza mai dimenticare le eccezioni. Vi è una cartografia concettuale che discende da quella tradizionale, la carta è un succedaneo del territorio. Poi, occorrerebbe una valutazione del potenziale di ogni fenomeno secondario: certo, mando i miei soldati in Medio Oriente, con determinate regole di ingaggio o alleanze, ma devo poter “fingere nel pensiero”, leopardianamente, cosa succederebbe se i miei soldati fossero attaccati da Hamas o dal Jihad Islamico del Sinai. Effetti diversi per lo stesso fenomeno. inoltre, la politica estera ha a che fare con l’alchimia: se mando soldati in Medio Oriente, devo poter utilizzare questo successo politico-militare sia per scontare contratti petroliferi meno onerosi o anche per vendere le mie armi ai locali, oppure per diventare indispensabili al tavolo della pace.
L’idea di Cavour di mandare i soldati piemontesi in Crimea fu, in effetti, ottima.
Quindi, la politica estera può essere utilizzata su più tavoli, ammesso e non concesso che lo si sappia fare. Inoltre, fare politica estera vuol dire creare un fenomeno inevitabilmente globale: chi si occupa di questo settore, sa benissimo che ogni operazione ha effetti plurimi, talvolta imprevedibili, ma che vanno sempre dalla cultura all’economia, dalla tecnologia all’arte. Nulla è fuori, in linea di massima, da una procedura di politica estera.
E, infine, chi non sa correre non sa camminare: le classi politiche che non riescono ad elaborare uno straccio di politica estera secondo i loro fini non sanno nemmeno fare politica interna o economica.