La nuova geopolitica del movimento uyghuro

Aumenta, in questa ultima fase, la pressione delle organizzazioni uyghure all’estero per accreditare l’immagine della Cina come “stato di torture”.
Non si vuole certo negare che la popolazione musulmana dello Xingkiang, che all’epoca della lunga marcia di Mao era chiamata semplicemente “la Regione occidentale”, non sopporti alcune restrizioni, ma è comunque vero che le reti islamiste e jihadiste sono fortemente presenti nell’area e che, come sempre accade in questi casi, hanno strutture visibili che coprono quelle invisibili.
E non necessariamente quelle visibili sono più grandi di quelle coperte.
La quantità di “agenti invisibili” per una organizzazione terroristica e jihadista è ben maggiore di quanto i possa pensare.
Se infine la Grecia, recentemente, ha posto il veto alla condanna della UE verso la Cina per la sua “repressione dei diritti umani”, è peraltro vero che la congerie degli human rights è una cornucopia dove si può mettere tutto e il contrario di tutto.
Peraltro, è difficile stabilire un “diritto” soggettivo e naturale senza un ordinamento ugualmente universale e condiviso che lo inquadri in norme cogenti.
L’abitudine al rigore del Diritto Romano, sede perenne di ogni sano ragionamento giuridico, non è, purtroppo, così diffusa come oggi occorrerebbe.
C’è, al posto della Ratio latina, un nuovo “diritto dei sentimenti” o addirittura “delle pulsioni”, che ormai caratterizza la linea della UE; un diritto erede, questo, di quello rappresentato dai capi ubriachi delle tribù germaniche sotto la loro quercia.
Uno spot, realizzato dalle ormai infinite agenzie private che tutelano i suddetti “diritti umani”, ha persino creato un artificioso legame tra l’emigrazione di massa dall’Africa verso la UE (ma soprattutto verso gli sciocchi governanti italiani) e la tortura.
Per non parlare poi qui dell’applicazione dell’ideologia dei diritti umani alle minoranze LGBT in occidente, dell’uso di questa teorica degli human rights alle masse ormai immense di immigrati dall’Africa all’Europa, o anche a minoranze che, pur esistendo da secoli, si trovano utilizzate contro i progetti di sviluppo dell’Asia; come i baluchi in Pakistan, contro il “Corridoio Sino-Pakistano”, le etnie sindhi e punjabi tra Islamabad e l’India, i Kachin tra la Cina e il Myanmar, area in cui la Cina sta peraltro investendo immani somme.
Insomma, le aree non-statuali tra le nazioni più grandi sono usate come cariche a tempo per destabilizzare o regionalizzare i maggiori Paesi in fase di crescita economica.
E questo è già un indizio.
Questo vale, naturalmente, anche per la questione uighura.
Si ricordi, poi, che l’attentatore della scorsa notte di Capodanno a Istanbul sarebbe, secondo la polizia di Ankara, un uighuro; e il Daesh-Isis usa quasi sempre uighuri per le proprie azioni in Turchia.
Asia Centrale, Afghanistan, Pakistan e Cina Occidentale sono tutte zone che fanno parte dell’area che è stata identificata come “Khorasan” dal califfato.
Ed infatti il terrorista del “Reina” di Istanbul è stato identificato come uighuro, ma dal nome significativo di Abu Mohammed Khorasani.
Uighuro che era stato addestrato in Siria, era poi ritornato in Xingkiang, era successivamente passato in Kirghizistan con la sua famiglia e da lì era arrivato a Istanbul, circa un mese prima dell’attentato.
Si calcolano, da parte delle forze di sicurezza cinesi e turche, almeno 300 uighuri che sono andati a far parte del califfato sirio-iraqeno.
Se si calcola che ogni jihadista ha bisogno, a parte l’addestramento, di una rete di protezione e di copertura di almeno 40-50 persone, si arriva a calcolare un numero non trascurabile di elementi della rete jihadista in Xingkiang.
Gang criminali vendono inoltre e regolarmente falsi passaporti kirghizi agli uighuri che fuggono dallo Xingkiang per unirsi al jihad.
Vi è già una collaborazione tra taiwanesi e uighuri per azioni, anche non militari, contro la Cina; mentre Rabija Kader, la fondatrice del World Uighur Congress, vorrebbe già proclamare la “repubblica dell’est Turkestan”, contro la quale Xi Jinping, nel Marzo scorso, ha richiesto la costruzione di una “grande muraglia di acciaio” per controllare e isolare lo Xingkiang.
Fino ad oggi, la politica di Pechino verso gli uyghuri è stata quella di integrare lo Xingkiang nella fase di rapida espansione economica che si è realizzata in tutto il Paese, oltre a costruire rapporti di sicurezza condivisa ed economici con i Paesi confinanti alla regione uighura.
L’area dello Xingkiang è vista, nei progetti della “Nuova Via della Seta”, come corridoio primario per l’energia e gli scambi tra la Cina interna, gli Stati dell’Asia Centrale e quelli del Medio Oriente.
Se si pone poi mente al fatto che una delle cause che hanno portato alla guerra in Siria è stata la proposta del 2009, da parte del Qatar, emirato oggi in una guerra di fatto con i sauditi e molti dei loro alleati, di una gas-pipeline dal suo North Field, al confine con il campo di estrazione iraniano, che attraversava l’Arabia Saudita, la Giordania e la Siria fino alla Turchia, per rifornire infine il mercato europeo.
Bashar el Assad, però, l’anno successivo scelse di sostenere la linea Iran-Iraq-Siria, la cosiddetta “pipeline islamica”.
Che sarebbe peraltro stata una alternativa a quella di Gazprom.
Ebbene, se questo è accaduto in Siria, con una attenta gestione del caos interno, della destabilizzazione, della tecnica della “azione nonviolenta” di Gene Sharp, sarebbe niente in confronto a quello che potrebbe sorgere in Xingkiang, per rallentare, bloccare, distruggere il progetto energetico ed economico della Cina con la “Nuova Via della Seta”.
Secondo indizio.
La Cina investirà a breve ben 25 miliardi di Usd nelle strade della regione di antica etnia turcomanna.
Il Corridoio Sino-Pakistano, altro progetto-chiave cinese, parte da un investimento infrastrutturale di 900 miliardi di Usd per la linea Tashkurgan-Gwadar, e anche qui la base di partenza della linea, oltre che a buona parte dei suoi immediati confini, sono a rischio di infiltrazione terroristica jihadista, che comunque avrà sempre la sua piattaforma naturale nello Xingkiang.
Tralasciamo qui la retorica buonista del Parlamento Europeo, che il 22 giugno u.s. ha richiesto, con il suo EU-China human rights dialogue, una maggiore attenzione del governo cinese alla “società civile” (concetto del tutto estraneo alla cultura politica di Pechino, antica e moderna) alla tutela degli “attivisti”, che sono spesso agenti del soft power avversario, il tutto al fine di scrivere o riscrivere inutili trattati.
Un continente, quello europeo, che non sa distinguere gli amici dai nemici, né quelli propri né quelli dei suoi alleati.
Un continente che non durerà.
L’area uyghura, inoltre, possiede ben 122 minerali, spesso con le maggiori riserve in tutta la Cina.
Anche di metalli rari, che sono oggi determinanti per lo sviluppo delle nuove tecnologie informatiche.
Per non parlare delle pietre preziose, dell’oro, della giada e dei materiali salini che servono per la produzione del vetro e delle vernici.
Poi, 25 miliardi di metri cubi di acqua, essenziale nel resto della Cina, con i ghiacciai, che dispongono di 24.000 chilometri quadrati, che potrebbero rendere 2580 milioni di metri cubi di altra acqua.
Sarebbe la risoluzione dell’immenso problema idrico della Cina.
Le riserve di carbone dello Xingkiang valgono il 38% del totale cinese.
Il petrolio e il gas naturale dell’area uighura sono oggi il 25% del totale delle riserve di tutta la Cina.
Ed è difficile da credere che questa area, che funge da base e corridoio primario terrestre per il grande progetto cinese della Road and Belt, non possa diventare, in un non lontano futuro, il punto di innesco di una nuova “strategia del caos”.
Terzo indizio.
Inizialmente, i terroristi uighuri delle azioni di Bishkek e della rivolta di Urumqi erano, in gran parte, addestrati in Pakistan.
Al Qaeda, poi, addestrava uighuri in Afghanistan per poi rispedirli nelle loro zone di provenienza per realizzare attentati terroristici.
Sia la Cina che il Giappone, inoltre, per differenziare le proprie fonti energetiche dal sempre più pericoloso Medio Oriente, guardano agli idrocarburi dell’Asia Centrale con estremo interesse, e la Cina, in particolare, ha necessità di avere un corridoio sicuro per il petrolio e il gas azero, kazako, uzbeko, kirghizo.
Bloccare la linea dello Xingkiang, o renderla insicura, è il modo migliore per costringere Pechino ai prezzi, alle tensioni politiche, alla crisi militari dei Paesi mediorientali.
Ecco, quindi, detto tra parentesi, il perché della lungimirante politica cinese nei confronti di Israele.
Sul piano geopolitico, per il nuovo “grande gioco” centroasiatico gli USA hanno dalla loro la unica forza di proiezione delle Forze Armate, la Federazione Russa ha il vantaggio strategico della posizione e dei lunghi rapporti con molti paesi dell’area, la Cina ha la chance di essere il più capitalizzato di tutta l’Asia e di avere, anche nel caso di Pechino, una forza armata capace di controllare bene il territorio e di proiettare inoltre la sua potenza nel Pacifico e nel Mar Cinese Meridionale, oltre che a sud.
Ma ha un punto di debolezza: la grande differenza etnica, che, purtroppo, si materializza soprattutto ai suoi confini.
A questo punto, potremmo ipotizzare per la Cina una politica degli Orazi e dei Curiazi.
Separare le etnie, rendendosi qualcuna amica, mentre si colpisce con la necessaria durezza la minoranza-obiettivo.
Certamente, la partecipazione delle minoranze etniche allo sviluppo economico impetuoso della Cina attuale, come infatti sta facendo oggi Pechino, è una ulteriore buona strategia.
Ma questo crea, comunque, un ceto di nuovi ricchi legati al governo, mentre il nuovo impoverimento, inevitabile, creerà altre, nuove, aree di rivolta.
Sarebbe utile che l’Europa, invece di credere a qualche militante dei “diritti umani”, pagato da chissà chi, si ponesse il problema geostrategico di sostenere la stabilizzazione dell’Asia Centrale, collaborando con l’asse russo-cinese per evitare il contagio jihadista e, soprattutto, il contagio delle potenze che lo sostengono o lo utilizzano.

Giancarlo Elia Valori