Quando si incontrano domanda e offerta

di Luigi Caramiello*

Quella relativa all’incontro fra domanda e offerta di merci, di beni, servizi è una questione che turba da sempre il sonno non solo degli economisti, ma anche di vari adepti di altre discipline. Si tratta di un tema inerente, nella sostanza, alla disponibilità di “informazioni” di cui dispone l’attore, all’interno del meccanismo negoziale e in generale riguardo a tutte le dinamiche di scambio sociale. Ora, le trasformazioni che stanno investendo in modo impetuoso il contesto societario, hanno delle conseguenze che mettono seriamente in discussione alcuni aspetti fondamentali dello scenario concettuale nel quale si sono strutturate le scienze sociali. Vorrei fare qualche esempio.
Se avessi deciso, 7 o 8 anni fa, di cambiare il divano, perché, nonostante la griffe prestigiosa, il colore non si intonava più al nuovo arredamento del mio living, l’unica cosa che potevo fare era di chiamare il rigattiere, il quale, nella migliore delle ipotesi mi avrebbe liberato dell’incombenza con modica spesa, oppure sperare che la nettezza urbana lo smaltisse nei rifiuti speciali. Oggi, invece, faccio una fotografia del sofà, lo metto in vendita su una piattaforma in rete, e nel giro di poche ore mi ritrovo con decine di telefonate di chi vuole comprare proprio il mio divano (se lo vengono pure a prendere) perché ha il design che piace a loro, perché ha la pelle di colore uguale alla tovaglia del tavolo e si combina splendidamente con le sedie e con la tinta di una cassettiera ecc. Ovviamente, sono disposti a pagarlo la metà della metà del valore di “mercato” di quel prodotto, ma forse sarebbe meglio dire del prezzo che gli chiederebbe un rivenditore se lo acquistassero al negozio, ma per me venditore, quei due o trecento euro, sono come piovuti dal cielo, anche considerando che non devo sobbarcarmi le spese di trasporto e smaltimento. Ho fatto un esempio, il più semplice possibile, ma vale identicamente per quella splendida collezione di vinile, intonso, con i più interessanti gruppi dell’era progressive rock, per tanti di quei libri, vecchi e nuovi, che gli intellettuali adorano e che, invece, sui miei scaffali occupano solo spazio. Una fotografia, in bella mostra su e-bay, e via. In pochi giorni hai una fila di potenziali acquirenti, una telefonata ed è andata, con guadagno netto di spazio, tempo e denaro.
Ora, attenzione, questa cosa ha delle ricadute positive anche sul terreno di quella che il pensiero politicamente corretto chiama la “sostenibilità”. Infatti il meccanismo permette il ridursi di inutili sprechi, consente il riuso ed il riciclaggio di oggetti e beni in ottimo stato, la diminuzione della quantità di rifiuti, insomma, siamo in presenza di un dispositivo di “ottimizzazione” del processo di allocazione di risorse, beni, servizi, che quasi avvicina la realtà fattuale del meccanismo al modello teorico. Tutto a posto? Oppure c’è il trucco? E dov’é? Sembra tutto funzionare, con la precisione delle scienze “esatte”, come gli orologi svizzeri. Il fatto è che la scienza non è esatta. E’ sempre approssimata, parziale, transitoria. La scienza è tale proprio quando contempla la possibilità di essere sbagliata e mette nel conto sempre un margine di errore. Se è esatta, insomma, non è scienza. Del resto, la perfezione non è di questo mondo, e bisogna fare talvolta i conti con gli “effetti perversi” dei fenomeni, ma andiamo con ordine.
Mi racconta un amico, titolare di un grosso negozio di articoli sportivi, che da un po’ di tempo succede una strana cosa. I ragazzi entrano, si provano le snakers, scarpe marcate Adidas, Nike, Puma, All Star, se le rimirano allo specchio ben bene, come stanno al piede, il colore, sperimentano la camminata, come scendono sui pantaloni, però non le comprano. Insomma, il suo giro di affari si contrae ogni giorno di più. Ha già licenziato due commessi e se continua così dovrà abbassare la serranda. Il fatto è che i ragazzi, una volta fatta la scelta, attraverso un monitoraggio “materiale” del prodotto, poi lo comprano su Internet, dove lo pagano minimo il 30% in meno. Insomma, dice il mio amico, il suo store non è più un punto di vendita, ma un punto di prova. E questo vale per tanti altri prodotti e per moltissimi altri settori merceologici. Insomma, la vendita on-line è, per il settore della distribuzione, l’equivalente di quello che la robotica è per il comparto manifatturiero.
Ora, mi rendo conto che tutto questo, nella storia, è già accaduto, che il declino di un settore produttivo crea occupazione in un altro, che è successo in passato similmente con l’avvento della macchina di Watt, che certo non possiamo fare l’errore storico dei luddisti ecc. Ma il dato è che noi non lo stiamo guardando con la distanza di una o più generazioni che osservano una fase storica passata, risolta. No. Noi ci stiamo dentro questo turbine, qui ed ora e con tutte le conseguenze che sperimentiamo ogni giorno sulla nostra pelle, noi non possiamo ancora avere, esenti da coinvolgimenti ed emozioni, il distacco di chi osserva analiticamente il modo di funzionare del business; per usare le parole di Rachael in Blade Runner “noi siamo il business”. Ovviamente, il meccanismo di cui parliamo, non può essere fermato, non si può imbrigliarlo in nessun modo, non si può e non si deve immaginare in alcun modo di bloccare l’evoluzione, il progresso tecnologico, la trasformazione produttiva, il cambiamento. Dobbiamo stare dentro la sua dinamica e trovare il modo di fruirne i vantaggi, riducendo al minimo i danni.
Pur nella consapevolezza che, come diceva il poeta, “non ci sono pasti gratis”. L’unica strategia che possiamo attivare, insomma, é quella di incalzare lo sviluppo, spingere l’incremento economico e l’innovazione, in tutti i settori, sollecitare la crescita, usare tutti gli incentivi possibili, arginare il clientelismo e la burocrazia, valorizzare il merito, migliorare lo scenario complessivo, insomma, determinare le condizioni, perché il “mercato” possa rimettersi in moto e creare nuova ricchezza, nuove opportunità, nuovo lavoro. Pensando anche con grande attenzione ai modi più efficaci per fornire un sostegno a chi proprio non ce la fa, contemplando anche una riflessione senza preconcetti su quel reddito minimo di cui parlava Hayeck. Insomma, abbiamo bisogno di uno sguardo ampio, aperto, di prospettiva.
Invece, abbiamo davanti agli occhi, tristemente, la realtà di un Paese che non vuole cambiare, proprio non ci riesce, che, anche per questo, stenta a ripartire con la velocità necessaria, un’Italia che forse, se va bene chiuderà quest’anno con un incremento del PIL intorno all’ 1%, con la disoccupazione ancora al 12 e quella giovanile al 45%. Su certi dati relativi al mezzogiorno permettetemi di stendere una trapunta pietosa di silenzio. Basti dire che dei 700mila giovani che vivono oggi nell’Inghilterra della Brexit, un’ampia parte sono meridionali. Probabilmente, alcuni di loro “svoltano”, nel mondo del commercio, della produzione, della cultura, britannici, ma la gran parte degli altri sono destinati a sbarcare il lunario svolgendo lavori dequalificati e sottopagati. Certo, è un po’ la regola che riguarda gli immigrati ovunque. E so bene che i cervelli “devono” anche fuggire, ma di cervelli Inglesi, tedeschi, nelle nostre contrade non ne vedo tanti. Insomma, vedere questo esodo un po’, come dire, dispiace. Anche perché questi ragazzi sono in gran parte diplomati e laureati, con le famiglie che hanno fatto grandi sacrifici per fargli raggiungere questi standard formativi, certo non per vederli friggere salsicce a Portobello’s road.
Ma, facciamo un passo indietro. Chi sono questi ragazzi? Che facevano in Italia, prima di partire? Quale visione avevano? Loro e quelli che sono rimasti (in attesa di partire anche loro?) Probabilmente facevano quello che fanno tutti i ragazzi, un po’ dovunque in Europa e in Occidente. Studiavano, si divertivano, seguivano mode e davano sfogo al loro sentimento di ribellione. Avevano anche i loro momenti di impegno sociale, di partecipazione politica, erano contro l’olio di palma, gli OGM, manifestavano per fermare la TAV, il Gasdotto, gli inceneritori, le trivelle petrolifere, i gassificatori, e tutto il resto. Come fanno i giovani (guidati e manovrati dagli anziani e cattivi maestri) ovunque nel mondo libero. Con una sola differenza. Da noi hanno vinto. Hanno bloccato ogni cambiamento. A tutti i livelli. Salvo eccezioni, la loro visione demenziale é divenuta senso comune, pensiero dominante, egemonia, in senso gramsciano. Hanno fatto proprio il punto di vista che gli propinano praticamente tutte le agenzie di formazione, tradizionali e nuove. La famiglia, la scuola, l’Università, i media, la rete. Tutti in coro a cantare le lodi di una concezione avversa allo sviluppo, civettante con la retorica della lotta al “neoliberismo”, della “decrescita felice”, del “chilometro zero”, e via scemenzando. Risultato? Il Paese è impaludato, lo sviluppo non parte, e loro sono costretti ad emigrare in Paesi (la GB è solo un esempio, il più eclatante) che hanno realizzato quei programmi energetici, infrastrutturali, istituzionali, innovativi, i quali, respinti nella nostra Italia, costituiscono palesemente l’humus necessario affinché si metta in moto il motore della crescita produttiva e occupazionale, in ogni campo, in tutte le altre nazioni progredite.
L’unica cosa che non si è potuta fermare in Italia è la rivoluzione digitale, perché (bufale sui social a parte) il terreno telematico, il mondo virtuale, è meno suscettibile all’esercizio di quei vincoli, politici, ideologici, istituzionali, che invece la fanno da padroni sul territorio reale. Il risultato é che il sistema Italia paga salatamente il prezzo, inevitabile, della trasformazione tecnologica, ma è impedito a godere dei suoi possibili benefici. E questo per delle ragioni “culturali”, ideologiche, che, come aveva intuito Weber, a volte agiscono come la variabile indipendente della dinamica sociale.
E’ una dicotomia banale e semplicistica, ma permettetemi di usarla, solo come schema di esemplificazione: la struttura “economica” del Paese è impedita ad evolvere, perché é stata avvelenata la sovrastruttura culturale e istituzionale, che dovrebbe guidare la direzione e la possibilità del cambiamento. Insomma l’egemonia dei “rivoluzionari” ha costruito tutte le condizioni perché il Paese venga seppellito, sotto una coltre spessa e impenetrabile, del peggiore “conservatorismo”.

* Comitato Scientifico Società Libera