Piccoli mafiosi, il destino scampato dei figli della camorra

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Mani piccole e veloci che confezionano dosi di droga, le mani dei bambini usati come pusher. A 8 anni confezionano le dosi. A 12 già spacciano. Sono i bambini usati dalla camorra per gestire il mercato della droga. Accade a Napoli, dove qualche settimana fa i carabinieri hanno arrestato 45 persone affiliate al clan Elia. Figli della criminalità organizzata, bambini a cui l’infanzia viene negata: sparano, maneggiano la droga, interpretano il ruolo di piccoli boss. Per questo i giudici del tribunale per i minorenni spesso decidono di allontanarli dalle famiglie criminali. Togliendoli ai padri – padrini per offrirgli un’alternativa alla vita che gli adulti hanno scelto per loro. Allontanare un figlio dai suoi genitori, anche peggiori, non è mai una soluzione indolore. Lasciarlo, però, in balia di una famiglia che di mestiere confeziona pacchi di eroina, significa arrendersi alle leggi della malavita, compreso testimone alla successione nell’attività criminale. E’ in questo stretto corridoio tra due limiti opposti che i giudici decidono per l’allontanamento dei figli ancora minorenni dalle famiglie criminali. “Contesto pregiudizievole”, via i figli ai bossi della camorra di Napoli. A distanza di un mese dall’arresto dei 45 affiliati al clan Elia, i giudici hanno sottratto i figli alla responsabilità genitoriale. Il Tribunale dei minorenni di Napoli, ha disposto per loro l’accompagnamento in case famiglie in diverse regioni d’Italia, comunque fuori dai confini della regione Campania. I bambini erano impiegati totalmente nella piazza di spaccio, alcuni di loro non andavano a scuola ed erano già stati segnalati ai servizi sociali. I giudici dei minorenni hanno deciso che quello non era l’ambiente giusto per crescere e hanno allontanato i ragazzini. Restare nelle loro abitazioni, hanno scritto i giudici “affidati alla cure delle rispettive famiglie, significherebbe farli restare in un contesto che è stato per loro gravemente pregiudizievole”. Non solo: i bambini prendevano parte al confezionamento e allo spaccio delle dosi delle sostanze stupefacenti, per loro scatta anche il divieto assoluto di intrattenere rapporti con la propria famiglia, perché – scrivono i giudici- è necessario recidere i deleteri legami ambientali che hanno già potenzialmente compromesso l’equilibrio sviluppo dei minori”. Un provvedimento storico quello adottato dal tribunale per i minorenni di Napoli. Un provvedimento simile si era verificato già lo scorso anno a Reggio Calabria, dove i giudici hanno iniziato a sperimentare questo nuovo strumento per la lotta alla criminalità. I dati dicono che sarebbero già ottanta i bambini sottratti alla ‘ndrangheta, sempre rispettando il diritto e applicando la legge, senza forzature o scorciatoie. In effetti, gli strumenti offerti dalle norme sono diversi. Consultando il codice penale, questo consente di allontanare un minore dalla propria famiglia in caso di abusi sessuali, con una piccola riforma, l’articolo è stato esteso anche ai maltrattamenti. Ecco che in Calabria ne hanno fatto tesoro: il minore, figlio di un boss, a cui gli viene insegnato a sparare, può essere considerato un bambino “maltrattato” e allontanato dalla sua famiglia, fino alla decadenza della responsabilità genitoriale (ex patria potestà). Un secondo strumento legislativo che risale addirittura all’Italia monarchica, colpisce i “comportamenti irregolari”, anche se non costituiscono un vero e proprio reato specifico. Ai minori al disotto dei 14 anni non gli può essere imputato nulla, ma è prevista l’applicazione di particolari misure di sicurezza. In tutti i casi, una volta sottratti ai boss, con mogli loro complici, i figli dei criminali vanno in una comunità, in una casa famiglia, in un servizio sociale sul territorio, gestito dal comune, o in un servizio sociale che fa capo al ministero della Giustizia. Un primo passo che li allontana dal crimine, dal destino segnato che da adulti inevitabilmente li porta al carcere e al regime del 41 bis. Il distacco dalla famiglia è una strategia iniziale che và però seguita passo dopo passo, si tratta di bambini che si ritrovano lontano dal loro solito contesto, dai loro genitori, di bambini che si sentiranno forti o spaesati, che andranno supportati dagli psicologi, ma anche educatori, sarà compito dell’assistente sociale trovare per loro una soluzione a lungo termine e duratura, che abbia senso di famiglia, di accudimento, di indirizzo educativo. L’obiettivo primario dovrebbe essere ancor prima di drastiche misure: sconfiggere e contrastare la cultura della prepotenza e della sopraffazione, che dilaga non solo nelle case dei camorristi. La partita della prevenzione si gioca non nelle aule dei tribunali ma sul territorio, dove si è fragilissimi. I territori fanno i conti con la carenza di assistenti sociali nei comuni, che ricevono segnalazioni, ma non hanno le forze, gli strumenti, il tempo, per cercare di approfondirle, seguirle e speso non riescono ad impedire la crescita criminale di un minorenne. Una crescita che prevede una sorta di percorso fatto di tappe: prima la consegna a domicilio di una busta con la richiesta del pizzo o con una dose di eroina, poi l’attentato incendiario o l’avvertimento dimostrativo, e infine la lezione, armi in mano, per diventare uno spietato killer. Tutto in famiglia. 

Maria Rosaria Mandiello