L’America di Donald Trump e la Cina

La recente (8 Febbraio) telefonata e lettera successiva  del Presidente Trump al suo omologo cinese, Xi Jinping, è stata, lo dicono le agenzie ufficiali, “lunga” e “estremamente cordiale”.

   Le fonti ufficiali ricordano, in particolare, che, proprio su richiesta del leader cinese, il Presidente USA ha confermato la linea politica dell’”Unica Cina” nelle relazioni bi- e multilaterali americane, ovvero che Washington non si oppone né ora né in futuro alle mire di Pechino su Taiwan,  che è ancora,   per Pechino,  “provincia ribelle”.

 Trump, lo riferiscono le fonti cinesi, ha anche fatto gli auguri al popolo cinese per il nuovo anno lunare, quello del Gallo, che va dal 28 gennaio 2017 al 16 febbraio 2018 e per la prossima festa delle Lanterne, il quindicesimo giorno del primo mese dell’anno nuovo.

 Chi sa   fare davvero politica estera è sempre molto attento ai simboli e alle tradizioni, non si intontisce di percentuali di PIL o di chiacchiere giornaliere, ma tiene alle simbologie dei vari popoli e alle loro più antiche tradizioni, che sono l’ordito di ogni comunità statuale.

  Secondo  Xi Jinping, nella sua prima telefonata al Presidente Trump, le due maggiori nazioni, Cina e USA, sono destinate a collaborare per reggere i destini del globo; e il leader cinese ha definito il cardine sostanziale, non formale, della politica estera di Pechino in questi anni: la riaffermazione del ruolo pacifico ma primario della Cina tra tutti i  Paesi del globo.

  Il concetto di relazione “win win”, cardine della politica estera di Xi,  venne espresso dal Presidente cinese, per la rima volta, nel suo discorso all’Istituto di Mosca per le Relazioni Internazionali, nel Marzo 2013.

 Poi il concetto venne ripetuto e applicato nelle visite di Stato cinesi in Serbia, Polonia e Uzbekistan  del giugno scorso;  e poi nel contesto della 12° Riunione dei capi di Stato della Shangai Cooperation Organization; e questo non è certo un caso, ma proprio un simbolo.

 Per Xi Jinping, la correlazione “win win” tra Stati si definisce con uno scheletro di fiducia reciproca, con una circolazione sanguigna di relazioni economiche vantaggiose per entrambi e con dei nervi fatti di scambi culturali, il tutto unito da una forte concretezza.

 In tale orizzonte intellettuale e politico, le nazioni che comprendono correttamente la situazione generale dell’intero globo formano una comunità di responsabilità condivise e, se questo accade nel rispetto delle varie culture e dei numerosi sistemi politici, le nazioni “win-win” formano una “comunità di destino”.

  Infine, nel pensiero di Xi Jinping, la relazione “win win” permette la migliore funzionalità dei tradizionali trattati multi- e bilaterali.

 Sarà proprio questa la grande offerta della Cina alla Unione Europea, che Pechino vede a tre livelli: l’ UE come centro nevralgico dell’economia mondiale, poi come grande area mediterranea, e la Cina farà in futuro perno sul Mare Nostrum, nonché, infine, come elemento strategico di riequilibrio tra Asia, Stati Uniti e i Paesi emergenti.

 Ci fosse almeno un pensiero strategico e geopolitico, in UE, all’altezza di quello cinese proprio riguardo la stessa Europa.

 La teoria delle relazioni “win win” significa, inoltre, che la Cina intende   estendere la sua teoria dello sviluppo, “creativo, coordinato e verde”, al resto del globo.

 E’ proprio questo il fondamento concettuale della Belt and Road Initiative, che Xin Jinping ha lanciato riprendendo la linea di Li Keqiang durante le sue visite di Stato del settembre e ottobre 2013 in Asia e in Europa.

 Ma, è bene notarlo, se Trump ha telefonato ai capi di Stato e di governo alleati e amici, per Xi Jinping ha perfino scritto una lettera, segno di evidente e particolare rispetto per la Cina e il suo governo.

 La tensione creatasi recentemente  tra Trump e Turnbull, il premier australiano, è poi l’ultima cosa che vuole Pechino, infatti la Cina è estremamente interessata ad una correlazione strategica, e quindi economica, politica e militare, con l’Australia, e soprattutto vuole che, tramite quel Paese, vi sia un legame con gli USA.

 L’America quindi, nel pensiero di Xi Jinping, come elemento di stabilità ed equilibrio multipolare,  in un Oceano Pacifico dove la Cina si espande a Nord e crea nuovi legami “win win” con tutti i Paesi rivieraschi e, in particolare, con il Giappone.

 Trump aveva inoltre allarmato il governo cinese chiamando telefonicamente il presidente della Repubblica di Taiwan, Tsai Ing-wen, nel dicembre scorso.

 Donald Trump ha poi, ripetutamente, in campagna elettorale e poi al governo, affermato che imporrà tariffe aggiuntive sulle importazioni cinesi in USA, accusando Pechino di svalutazione artificiale della sua divisa per, appunto, stimolare le sue esportazioni e “rubare posti di lavoro agli americani”, per usare la terminologia del futuro Presidente durante la sua campagna elettorale.

 Inoltre, Rex Tillerson, Segretario di Stato, ha affermato in Senato che la Cina non dovrebbe avere libero accesso alle isole artificiali che essa ha costruito nel Mar Cinese Meridionale; e che gli USA tuteleranno  comunque le libere vie d’acqua tra Pacifico e Mar Cinese.

 Ma è vero che la Cina manipola la propria moneta? Vediamo.

 I capitali (cinesi) se ne stanno andando via dal Paese perché gli investitori internazionali, e molti di questi sono peraltro anche  cinesi, non sono ottimisti riguardo al futuro dell’economia di Pechino.

 Ritmo espansivo lento, con la crescita più bassa da 25 anni. Un abbassamento della crescita che avviene per molte buone e utili  ragioni: il governo sta infatti riducendo il tasso dei titoli di Stato, sta poi raffreddando i prezzi degli immobili e mettendo in atto riforme che ridurranno l’eccesso di capacità produttiva e aumenteranno l’efficienza produttiva delle imprese pubbliche.

 E’ in atto quindi un circolo vizioso, che dimostra come il mercato non sia adatto a fare da supremo giudice delle economie.

 Gli investitori quindi vendono yuan e comprano dollari Usa o altre monete forti, il che genera pressioni ribassiste sul cambio dello yuan, il che stimola ulteriormente alla vendita della divisa cinese e all’acquisto di dollari e altre monete forti.

 Se ci sono capitali in uscita, lo yuan abbassa il suo tasso di cambio, come sempre accade in questi casi.

 Se ne sono andati fuori dalla Cina capitali per 1,2 trilioni di Usd, dai tempi della doppia svalutazione dell’Agosto 2015, le riserve in valuta cinesi  sono poi  calate di ben 800 miliardi di Usd in due anni,  proprio per difendere la parità dello yuan, dollari venduti solo  per sostenere lo yuan, naturalmente.

 Il governo di Pechino ha, nel tempo, bloccato i trasferimenti di yuan delle imprese fino al riequilibrio tra entrate e uscite, ristretto l’acquisto di valute da parte degli operatori economici cinesi, stimolato le imprese di Stato a vendere valuta estera, bloccato fino a 5000 Usd di spesa l’uso delle carte di credito.

  Questi  sforzi sembrano oggi andare in porto.

   Fino a questi giorni, i dati più recenti ci riferiscono che i capitali stanno rientrando in Cina e che, quindi, il valore della moneta dovrebbe stabilizzarsi rapidamente.

 Quindi, è vero che il governo cinese sta “manipolando” la sua moneta, salvando però le sue riforme e la stabilità economica e politica interna, ma la manipolazione avviene verso l’alto, non verso il basso; e non vi è  quindi alcuna svalutazione dello yuan che favorisca le esportazioni cinesi negli Usa o altrove.

 Le accuse di currency manipulation erano peraltro tipiche anche di Obama e della Clinton, ricordiamolo. 

 Ma ricordiamo, anche, che il deficit commerciale tra Usa e Cina è oggi di 232,25 miliardi di dollari, e che questo è comunque un problema che va risolto.

 In altri termini, il governo tiene “su” lo yuan e, quindi, sussidia di fatto le importazioni dalla Cina.

 Peraltro, la Cina ha bisogno di dare lavoro ad una massa di disoccupati ben maggiore di tutta la quantità di workforce statunitense; e che non vuole quindi favorire la concorrenza al ribasso di Giappone, India o Vietnam.

 Peraltro, le posizioni economiche di Donald Trump, o quello che il candidato repubblicano ha affermato durante la campagna elettorale, sono tali da rafforzare il dollaro, mentre l’economia Usa è ancora la locomotiva mondiale della ripresa.

 E ipotizziamo che lo rimarrà ancora per molto tempo.

 Per il candidato Trump, la massima percentuale di tassazione per i redditi sarà il 33% dal 39,6 % attuale, la tassa sugli immobili sarà del tutto abolita ma, comunque, nessun tipo di impresa dovrà pagare oltre il 15% delle proprie entrate in tasse.

 Ma, in compenso, non ci saranno più paradisi fiscali interni o escamotages fiscali, il che ha allarmato non poco molti tradizionali elettori e soprattutto finanziatori dei repubblicani.

 Peraltro, l’attuale presidente ha minacciato la Cina anche riguardo alla proprietà intellettuale e sui sussidi illegali, egli ritiene, alle esportazioni.

 Altra tematica in comune con l’amministrazione precedente. In contraddizione parziale con queste opinioni, Trump ha poi sostenuto l’ipotesi di trasformare gli Usa in una nazione più attrattiva, per gli investimenti esteri, della stessa Cina, tentando inoltre di diminuire il debito pubblico Usa in modo da evitare la pressione nascosta di Pechino, che è ancora il maggior possessore di Treasury Bonds statunitensi.

 E comunque, ci dicono gli esperti di economia internazionale, gli USA hanno un surplus commerciale aggregato con 20 tra i Paesi con i quali Washington mantiene accordi commerciali, mentre 1 miliardo di Usd in esportazioni sostiene circa 6000 posti di lavoro americani, tenendo mente al fatto che i lavori derivanti dalle attività di export sono pagati in media il 18% in più degli altri.

 Quindi, il Presidente Trump, alla fine, modificherà grandemente il recente TTP, ovvero   l’accordo commerciale tra Usa, Brunei, Australia, Cile, Canada, Malesia, Messico, nuova Zelanda, Perù, Singapore, Vietnam.

 Le tariffe delle esportazioni dei prodotti nordamericani in Asia sono comunque  oggi troppo alte, e il raffreddamento del TTP favorirebbe grandemente  solo la Cina.

 Nessuno, nell’amministrazione Trump, ama il TTP, e il Presidente preferisce accordi commerciali bilaterali alle alleanze economiche multipolari.

 Quindi, il paradosso della situazione bilaterale tra Usa e Cina è che, se lo yuan risale, come dovrebbe accadere tra poco, il Dollaro Usa si abbassa di una quota rilevante, e allora sarà più facile per il Presidente Trump stimolare le esportazioni americane.

 E, per la eterogenesi dei fini, il congelamento del TTP potrebbe diventare lo stimolo primario alla ripresa dell’economia cinese.

Giancarlo Elia Valori