Il governo Renzi abbattuto dal voto dei giovani e del sud

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Doveva essere la settimana della vittoria del Sì alla riforma costituzionale o della débâcle economico-finanziaria del Paese; della rottamazione definitiva della vecchia classe politica o della restaurazione; della svolta o del ritorno al passato.

È stata invece la settimana della vittoria del No e del rimbalzo di Piazza Affari, delle dimissioni del premier Matteo Renzi e del ritorno alle liturgie delle consultazioni quirinalizie. In ogni caso, la settimana della svolta che – questa sì – comunque c’è stata. E, dunque, delle elezioni anticipate, che però non sembrano preoccupare, a questo punto, più di tanto le borse. Elezioni che i partiti di minoranza – riscopertosi maggioranza nell’indistinto delle urne – ora reclamano, chi “immediatamente” e chi, invece, “subito ma senza fretta”.

E in mezzo, come accennato, c’è il capo dello Stato, Sergio Mattarella, chiamato a fare l’arbitro – come ha ricordato, giorni fa, ai ragazzi di alcune scuole in visita al Colle – di quella che appare una convulsa partita istituzionale. E c’è la Corte Costituzionale, chiamata invece – urgentemente, sembrerebbe, ma mica tanto visto che deciderà soltanto a fine gennaio (il 24) – a trovare la quadra giuridica all’Italicum, ovvero ad una legge elettorale scritta male (come sempre più spesso capita, ormai) e che l’attuale classe politica probabilmente non riuscirà a riscrivere, in modo dà renderla omogenea per il rinnovo dei due rami del Parlamento. Perché una cosa è certa, il Senato resta così com’è. E non si toccherà. Con buona pace della casta.

Dunque, la vittoria del No e le dimissioni di Renzi non solo non hanno spaventato le borse, ma hanno fatto registrare finanche il ritracciamento dello spread tra Btp e Bund a 166,49 punti base (dopo un massimo di 177 punti base). “L’Italia è un Paese solido con solide autorità e ho piena fiducia che sappia gestire la situazione. C’è una certa instabilità politica ma il paese è davvero stabile oltre che una grande economia”, ha affermato  il commissario Ue per gli Affari economici e monetari, Pierre Moscovici.

Evidentemente – è stato annotato, con senno di poi, alcuni analisti – il mercato italiano aveva già scontato nei giorni scorsi la vittoria del No al referendum. E poi, a buttare acqua sul fuoco, c’è stata anche l’elezione in Austria dell’ecologista Alexander Van Der Bellen (“Con me ha vinto l’Europa”, ha detto) che ha battuto lo xenofobo Norbert Hofer. E soprattutto c’è stata – lo vogliamo dire? – l’azione discreta della Banca centrale europea (Bce) e del presidente Mario Draghi.

Il quale, anzi, a conclusione del meeting di giovedì scorso ha annunciato che il piano d’acquisto di titoli di Stato proseguirà oltre la scadenza di marzo. E anche se gli stimoli, a partire da aprile, scenderanno da 80 a 60 miliardi al mese, non ha escluso che “gli acquisti potrebbero essere nuovamente aumentati se l’outlook economico dovesse diventare meno favorevole”.

Tutto a posto, allora? Mica tanto. Tra le notizie non proprio confortanti della settimana c’è il solito richiamo al Belpaese da parte dell’Eurogruppo, con richiesta di manovra aggiuntiva. Ovviamente.  “L’Italia prenda le misure necessarie per rispettare nel 2017 il patto di Stabilità”, hanno scritto i ministri finanziari Ue nelle conclusioni del vertice. Anche se non mancano, all’apparenza, le mani tese. Il presidente Jeroen Dijsselbloem, infatti, ha subito aggiunto: “E’ impossibile pretendere correttivi ora, aspettiamo il prossimo governo”. Ecco. Appunto. Augurandoci che non sia tecnico.  Anche perché quello politico del dimissionario Renzi, ieri l’altro, è riuscito in ogni caso ad approvare definitivamente la manovra. Con voto di fiducia al Senato, sottolineo. E mi astengo da ogni commento.

Non fa così, però, l’agenzia di rating Moody’s che con la crisi di governo “vede più nero sull’Italia”, e taglia “l’outlook da stabile a negativo”, pur mantenendo invariato il “rating” a un livello “Baa2”. Vale a dire: un giudizio superiore al livello insufficiente (o “spazzatura”) di soli due gradini.

E poi ci sono i soliti report dell’Istat, secondo cui le famiglie italiane con figli sono sempre più a rischio povertà. Invero, il tasso è stabile al 28,7%, ma con fortissime disuguaglianze tra Nord, Centro e Sud, dove raggiunge il 46,4%. Disuguaglianze che si riscontrano anche nella classifica degli stipendi, dove alla ricca Milano e alla dinamica Toscana fanno da contraltare la più povera in assoluto, Lecce, e le regioni del Sud. Infine, il dato sull’occupazione, che infatti frena (-0,1%), pur restando stabile il tasso di disoccupazione (11,6%).

Insomma, c’è più di una ragione, volendo, per comprendere il dato referendario. Gli elettori – è stato scritto – hanno votato con la pancia. Non a caso che a votare No sono stati soprattutto i giovani e al Sud. In Sardegna e a Palermo hanno raggiunto il 72 per cento.