Roma, 6 mar. (Labitalia) – Più della metà delle giovani donne nel mondo decide di intraprendere la carriera universitaria e alcune tra queste, 35 su 100, scelgono le facoltà scientifiche. Tra loro ci sono matematiche, ingegneri e scienziate. Nel frattempo, sta emergendo una figura professionale, figlia del ventunesimo secolo: il data scientist. Utilizza metodi scientifici, processi, algoritmi e sistemi per estrarre valore dai dati. Una professione sempre più necessaria all’interno delle aziende anche se, come dimostra il nuovo studio di Boston Consulting Group ‘What’s Keeping Women Out of Data Science’, non è un lavoro per tutti. Almeno per ora e almeno nella percezione: molti uomini, pochi donne. Questi i risultati ottenuti su un campione di più di 9.000 studenti e neo laureati di dieci paesi, dall’Australia alla Spagna.
“Nonostante la scienza dei dati sia uno dei settori più caldi e in rapida crescita del mercato del lavoro, rimane tuttavia un campo fortemente dominato dagli uomini e poco aperto alle donne. Lo dicono i numeri”, afferma Laura Alice Villani, Managing Director e Partner di Boston Consulting Group.
“A livello globale, le donne rappresentano solo il 15% dei professionisti della data science, uno squilibrio di genere che rende monocolore un ambito come quello dell’Intelligenza Artificiale, dove l’elemento umano, e la diversità che porta con sé, restano fondamentali. Perché l’Ai, che affonda le sue radici proprio nell’uso dei dati, diventi una risorsa preziosa per l’economia, è necessario che sia prima di tutto diffusa tra la pluralità della popolazione. Donne comprese”, dice.
Ma cosa tiene le donne lontane dalla scienza dei dati? Una conoscenza inesatta della materia, un giudizio basato su falsi miti e un problema d’immagine. Circa la metà delle ragazze iscritte alle facoltà scientifiche, informatica compresa, non sa cosa faccia nella quotidianità un data scientist. È un lavoro percepito come molto teorico e poco utile nella vita di tutti i giorni. Ma anche sempre troppo da ‘nerd’ del computer oppure troppo competitivo. “Per vincere con l’intelligenza artificiale – continua Villani citando i dati di un precedente report del Mit Sloan e Bcg – le aziende devono puntare sulla trasparenza. L’Ai presenta anche dei rischi, e lo studio e monitoraggio dei dati divengono opportunità concrete di crescita volta al miglioramento della vita delle persone”.
Agli studenti e ai neo laureati, invece, fino ad oggi è arrivata un’immagine semplicistica della scienza dei dati e del lavoro che si cela dietro al professionista del settore. Ciò che riescono a vedere, anziché attrarli, li allontana. Troppa competizione e troppa poca collaborazione, peculiarità di una cultura del lavoro che fa paura a 81 ragazze su 100 e che, nonostante l’iscrizione a una facoltà scientifica, non tengono in considerazione la carriera da data scientist.
Ma c’è anche chi nel mondo dà il buon esempio. Come il circolo virtuoso di paesi, Australia, Francia e Spagna, in cui la popolazione femminile si considera ben informata sulle varie possibilità di carriera. Qui già molte donne sono impiegate nel mondo dei dati e di conseguenza, hanno fatto da ‘apri pista’ per le nuove generazioni di scienziate. Hanno seguito un’equazione semplice: se i dati da trattare aumentano, il bacino di talenti per analizzarli deve ampliare e per questo è fondamentale il contributo dei talenti femminili. Per sconfiggere le discriminazioni, come quelle di genere, esiste già una regola generale: meno credenze, più fatti. Per studiarli ci sono, poi, appunto, i data scientist.