C’è un dato interessante che emerge tra quelli del recente studio a cura di Confindustria e Cerved sullo stato di salute delle 30mila Pmi di capitali del Mezzogiorno.
Lo studio identifica un numero rilevante di circa mille imprese che possiedono caratteristiche compatibili con l’acquisizione da parte di un fondo di private equity o con una possibile quotazione. Questa apertura dei capitali appare quantomai necessaria e potrebbe avere un impatto davvero significativo sull’economia del Sud, quantificabile nel medio periodo in oltre 3 punti di Pil in più.
I risultati delle Pmi meridionali sembrano aver raggiunto un punto critico: a partire dal 2018 il quadro mostra segnali di frenata in linea con l’andamento generale del Paese, rendendo più urgente intervenire sui fattori strutturali di debolezza: la dimensione, la governance e la propensione all’export.
La quinta edizione del Rapporto Pmi Mezzogiorno restituisce una fotografia in chiaroscuro delle imprese che contano oltre 136 miliardi di euro di fatturato e un valore aggiunto di quasi 32 miliardi di euro, pari a circa il 10% del Pil meridionale. È una istantanea in chiaroscuro perché fino al 2017 mostra, per il quinto anno consecutivo, un andamento positivo del fatturato (+4,4%) e del valore aggiunto (+3,5%); ma al tempo stesso emergono anche segnali negativi come la ulteriore frenata della redditività lorda, margini che crescono solo dello 0,5%, un indebitamento sostanzialmente fermo (+0,4%), e l’accesso al credito difficoltoso.
Questi segnali di rallentamento sono ulteriormente confermati anche dalle liquidazioni volontarie in bonis – quelle aziende in salute ma che scelgono di chiudere i battenti volontariamente – segnale di peggioramento delle aspettative future di profitto e di fiducia degli imprenditori. Come al solito il meridione presenta anche al suo interno velocità differenziate, con un primo gruppo di regioni, che comprende Campania, Puglia, Basilicata e Calabria, che mostra un più positivo andamento di medio periodo quanto a redditività e solidità finanziaria, ed un secondo gruppo con le altre regioni indietro nel ranking regionale.
Il salto dimensionale necessario alle imprese richiede forti iniezioni di capitale, nuove competenze ed una governance più matura, e impone una progressiva apertura delle Pmi familiari, che sono ancora la forma prevalente al Sud (74%) più ancora della media nazionale: quasi una impresa meridionale su due è del tutto chiusa ad ogni tipo di apporto esterno. Eppure molte imprese sono già pronte per questo “salto”.
L’apertura e la crescita dimensionale potrebbero dare alle Pmi meridionali energie nuove per affrontare la terza sfida decisiva: quella dell’internazionalizzazione. Quelle a forte dipendenza con l’estero sono ancora troppo poche, solo 2.500, l’8,7% del totale. Invece le imprese con un’alta vocazione all’export dimostrano dati di bilancio nettamente migliori. L’ampliamento di questo club ristretto costituisce un’altra sfida decisiva.
Solo accogliendo queste sfide, le Pmi del Sud potranno affrontare una congiuntura complessa: secondo le previsioni di Confindustria e Cerved, infatti, le Pmi meridionali dovrebbero crescere in maniera contenuta rispetto alla media del Paese i cui margini, stagnanti fino al 2017, potrebbero ulteriormente rallentare fino a contrarsi nel 2019.
Apertura culturale, apertura del capitale, apertura dei mercati sono le sfide più urgenti. Tutti gli strumenti pubblici e privati in questo senso sono da mettere subito in campo. Solo così le Pmi del Mezzogiorno potranno avere l’energia per riprendere il cammino dello sviluppo. Ma il tempo sta scadendo, e il rischio di un nuovo stop alla crescita è davvero dietro l’angolo.